La Voce di Trieste

La crisi economica europea, l’Italia e la dottrina Guicciardini dell’indeterminazione utile

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Economia e politica

Poiché Trieste oltre che in Europa sta in Italia, lo voglia o no, non possiamo ignorare che mentre l’Unione Europea trema per i disordini politici che aggravano la crisi economica greca rimane sempre incombente quella italiana. Ma con rischi ben maggiori, dato che questo Paese rappresenta da solo il 18% dell’economia comunitaria: più che il totale dei focolai di crisi già pericolosamente attivi di Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna.

L’Italia non è peccatrice minore di loro, anzi. Ma sinora se l’era cavata con due elementi di ricatto sostanziale intrecciati: il suo peso strategico, sia politico che militare, irrinunciabile per l’Occidente durante tutta la guerra fredda, inclusi ruoli particolari di mediazione, e quello anche economico per lo sviluppo ed il funzionamento dell’unificazione europea. Con la fine della guerra fredda è rimasto vitale soltanto il secondo, ma gli stravaganti governi italiani hanno continuato a disamministrare come se non fosse cambiato nulla.

Mentre i meccanismi finanziari internazionali rischiano di dar luogo anche a collassi speculativi improvvisi, se si incrementa la convinzione degli investitori che Roma nasconda dietro chiacchiere l’impossibilità di sanare il proprio debito pubblico ormai quasi oltre il 120% (la soglia di rischio è l’80%) del pil, prodotto interno lordo, indice pur discusso che quantifica il valore complessivo dei beni e servizi prodotti da un Paese.

La preoccupazione sulle sorti economiche e politiche dell’Italia è quindi sempre più diffusa in tutto l’ambito euroatlantico, dove gli economisti di formazione germanica (anglosassone o tedesca) ne discutono sul modello dottrinale delle tre vie d’uscita classiche: inflazione (ma con l’euro non si può più), crescita economica (ma non si vede come), e fallimento (travolgente, e perciò da impedire ad ogni costo).

Trascurano però la quarta via, empirica e tipicamente italiana, anche se la vedono mettere in atto ogni giorno: quella della dottrina Guicciardini. Cioè del tirare avanti comunque ed alla meglio, contando sul fatto che il trascorrere del tempo introduce da sé nella situazione economica e politica sia interna che internazionale delle varianti anche radicali che potranno essere via via sfruttate improvvisando. È in sostanza una dottrina politico-economica dell’indeterminazione utile.

Il motivo per cui gli analisti d’impostazione nordica non colgono il valore funzionale di questa prassi solo apparentemente irragionevole è probabilmente culturale. Lo stesso per cui nelle loro accademie politico-militari, ed altre, sembra intelligente studiare Niccolò Machiavelli come teorico rinascimentale della ragion di Stato, cioè del cinismo del potere, trascurando invece il maggiore e più fine pensatore politico italiano di quei tempi, e forse di tutti, che è appunto Francesco Guicciardini (1483-1540), pure lui toscano, scrittore, politico e diplomatico.

Lo si trascura ufficialmente anche in Italia, ma per lo sciocco motivo che il suo pensiero era realisticamente antiunitarista, mentre quello teorico di Machiavelli puntava alla costosa utopia dello stato italiano unitario (quella che si celebra e discute proprio quest’anno).

Ma nella pratica il vero maestro nascosto della politica italiana rimane il fine realista Guicciardini, e soprattutto per questa sua dottrina indeterminista del superamento di difficoltà anche estreme con lo sfruttamento delle varianti incerte che si producono certamente da sole se si lascia trascorrere il tempo rinviando le scelte troppo impegnative.

I rischi di questa scuola di governo opportunista dell’indeterminazione sono evidenti, ma in Italia continua a dominare e funzionare. Anche perché le attese del non fare impoveriscono soltanto il popolo, ingrassando più comodamente i politici.

Paolo G. Parovel

© 17 Giugno 2011

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