La Voce di Trieste

Perché occorre salvare l’osteria di Bota?-Botazzo

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Chi scrive è tra coloro che la chiusura, si spera temporanea, dell’osteria-rifugio di Bota?-Botazzo rende orfani spirituali di un centro e termine essenziale del piccolo mondo condiviso dell’alta valle della Glinš?ica-Rosandra, che ad un passo da Trieste è rimasto selvatico come fosse in capo al mondo, ed è fatto di rocce e fiume, grotte e boschi, fiori ed animali selvatici, ma anche di sentimenti ed amicizie d’una vita.

Appartengo per età all’epoca (epica) della gestione di Pepi e Marija Žerjal, quando scoprimmo il complesso sotterraneo della Fessura del Vento, studiavamo la microfauna delle grotte e delle acque sotterranee, frequentavamo i pipistrelli della grotta omonima, i gamberi del fiume ed i ghiri del bosco, le tane dei tassi ed i gufi reali sulle rocce, arrampicavamo, scavavamo, scendevamo correndo i ghiaioni, dormivamo in caverna e facevamo il bagno sotto la cascata, dove salivano ancora dal mare le anguille.

Bota?, o Botazzo, è un piccolo ed antico villaggio sloveno di mulini, ora scomparsi, sotto il castello duecentesco di Vincumberg dei conti di Gorizia e la sua chiesa di sv. Lovrenc, san Lorenzo. Dei quali rimangono rovine di vallo, maceria e basi murarie sulla dorsale collinare fittamente boscata che sale verso Beka ed Ocizla sovrastando il corso del piccolo fiume. Che scende da Klanec e prende nome dai propri depositi d’argilla, glina, commista al travertino leggero e spugnoso di cui sono fatti gli archi gotici delle nostre chiesette cinquecentesche. Sicuramente antica è anche l’osteria, perché di qui passava una delle vie di traffico medievali per Trieste.

Il confine del 1947 a ridosso del villaggio, con le garitte delle opposte guardie di frontiera, ne faceva anche una sorta di oasi al confine del mondo. Era stato inquietante e rischioso nel primo dopoguerra, ma ai tempi nostri qui era ormai un valico agricolo che i paesani proprietari di campi e boschi rimasti di là attraversavano normalmente, e le guardie italiane vennero ritirate quando la vigilanza dell’intera linea di confine rimase affidata al corpo specializzato jugoslavo dei grani?ari (confinari), per accordo riservato fra i due Paesi con l’avallo della Nato.

Anche se la stampa triestina spesso li demonizzava, qui il loro incarico principale consisteva infatti nel contrastare giorno e notte un traffico crescente di contrabbandi di persone, armi e droga entro una fascia di confine perciò interdetta al transito ordinario. Era un compito duro e rischioso, per il quale servivano anche di cani robusti addestratissimi, e se fermavano qualcuno che passava il confine illegalmente (ilegalec) si prendevano quindici sospirati giorni di licenza premio, fosse un contrabbandiere pericoloso o un gitante sbadato.

In concreto però bastava poco per farci anche amicizia, e se dovevi visitare luoghi della zona interdetta bastava andare dal valico internazionale di Pesek alla loro casermetta (karaula) panoramica in cima al monte ? che ogni tanto contrabbandieri malaccorti scambiavano per un motel ? e lì ti davano due uomini armati di scorta per andare dove chiedevi. Una volta ci assegnarono un poeta serbo ed un kosovaro incantato dalle fioriture del Carso primaverile, e filosofammo in concordia per ore passeggiando tra resti di castellieri. Storie di umanità concreta, insomma, e non di politica e violenza.

Così erano anche quelle di Pepi, agricoltore ed oste forte ed arguto, e della sua dolce ma energica e spiritosa Marija che ci cucinava semplici cose buonissime a tutte le ore e si preoccupava dei nostri amori e dolori. Erano tanto amici di noi tutti, in quell’angolo verde al confine del mondo, che li consideravi come e più che parenti. Dal tempo di guerra Pepi aveva benemerenze partigiane, ma rimaneva anche grato alla pattuglia tedesca che aveva salvato dai fascisti un suo porcellino. E ricordo con quale solennità Pepi se ne andò un giorno a cercare nel bosco, secondo consuetudine antichissima, il giovane tiglio che trapiantò poi nel cortile facendolo crescere con ogni cura.

Pepi e Marija non ci sono più da anni, ed il tempo continua a condurre anche molti altri amici oltre il confine della vita, mentre la frequentazione della valle selvatica di allora, pur restando bellissima, ha subìto degli eccessi e conseguenti restrizioni a tutela. Ma in cambio il confine è completamente aperto, ed ora ti puoi addentrare dall’osteria su per il monte ed i boschi come e quanto vuoi, ritrovando quella dimensione naturale libera e meravigliosa, dal Carso triestino a quello montano, che i nostri avi avevano goduto sino al 1918.

La piccola osteria del minuscolo villaggio d’antichi mulini sotto le rovine della chiesa e del castello medievali è stata il cuore, attuale e dei ricordi, di tutto questo per intere generazioni innamorate di quelle rocce, grotte, campi e boschi che intorno a Trieste consentono a chiunque, povero o ricco, di non finire prigioniero delle alienazioni urbane d’altrove. Non è un locale qualsiasi, ma un servizio pubblico insolito ed insostituibile di ristoro naturalistico, dell’anima, delle memorie e degli affetti. E se chiude davvero, là in fondo alla valle ed attorno al tiglio ormai grande non rimarrà che il vuoto di questi beni preziosi.

Qualsiasi cosa possiamo dunque fare, noi e le autorità, per salvarla e tenerla aperta, facciamola, e presto.

P.G.P.

© 6 Aprile 2011

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