La Voce di Trieste

Capo e… coda polemica

di

“Il mito si perpetua perché la storia abbia un qualche senso”. David Bidussa (1955-)

Sir Arthur Conan Doyle mise sulle labbra del suo acutissimo detective una frase che riassumeva il metodo nella ricerca del vero o almeno del ragionevole: “Una volta scartato l’impossibile, tutto quello che rimane, per quanto improbabile è la realtà“.

Sembra un suggerimento a quanti maneggiano i miti (sostegno cospicuo di tutte le religioni) che, per loro natura e funzione, non tengono conto di riscontri oggettivi, ma si prestano molto bene a esercizi investigativi di solerti inquisitori decisi a isolare gli elementi storici, saldamente intrecciati a quelli fantastici.

Sigmund Freud nei saggi su L’uomo Mosè e la religione monoteistica (Freud Opere: volume XI 1930-1938; Bollati Boringhieri Editore – Torino- 1979), scritti fra il 1934 e il 1938, affrontò il delicato problema della compatibilità, e quindi della credibilità del racconto biblico sottoposto ad analisi critica.

Le conclusioni ipotizzate da Freud, di fatto, demolivano l’impianto “storico” della religione ebraica.

Mosè non sarebbe stato ebreo ma egizio: lo testimoniano il suo nome (mose = figlio di; esempio: Thut-mosi figlio-di-Thut) ed il suo rango; avrebbe abbracciato la ferrea credenza monoteistica egiziana imposta dalla riforma di Ekhnatòn alias Amenofi IV (1375 a.C.) di cui, quale membro della casa reale egizia, era verosimilmente gran sacerdote; dopo la morte del faraone “eretico” si sarebbe messo a capo della popolazione semitica stanziatasi, circa duecento anni prima di Ekhnatòn, nelle regioni settentrionali d’Egitto con l’intento di formare un nuovo popolo, seguace di un unico Dio; l’esodo effettuato, fra il 1358 e il 1350 a.C., senza persecuzioni, né editti di proscrizione, avrebbe avuto lo scopo di riunire le tribù emigrate a quelle rimaste nel sud della Palestina, nella terra “promessa” di Canaan (sotto controllo egiziano!) con cui avevano stretti vincoli di parentela.

Come se questo non bastasse a sconvolgere alle radici una tradizione millenaria gelosamente conservata e difesa, lo psicanalista viennese giunse alla risoluzione che i fondatori della religione ebraica, dovevano essere, per motivi temporali, due; due “Mosè” diversi per carattere, funzione e periodo d’azione.

Il primo, quello egizio, caratterialmente duro, intransigente, dispotico, sarebbe stato il condottiero indiscusso dell’Esodo verso la Palestina, durante il periodo di disordini che segnò il passaggio dalla XVIII alla XIX dinastia; avrebbe imposto al “suo” popolo la legge divina elaborata da Ekhnatòn  e, prima di concludere la sua impresa, sarebbe stato trucidato nel deserto dai suoi stessi “sudditi”, scontenti dei pesanti divieti normativi.

Il secondo, genero del sacerdote medianita Jethro, avrebbe abitato la località di Meribah-Kadesh (nord Sinai), e nel ruolo d’interprete privilegiato del dio vulcanico Yahweh, ne avrebbe propagato  il culto presso la sua gente. Fra le due fasi, che videro la fusione delle diverse tribù dell’esodo e quelle stanziate nella zona di Meribah-Kadesh nel popolo d’Israele, con l’adozione di una sola religione ed un solo Dio, passò circa un secolo e mezzo, come testimonia la stele (1209 a.C.)  del faraone Merenptàh che parla, per la prima volta, di una battaglia sostenuta con gli Israeliti.

Quindi due memorie, differenti ma confluenti, che richiesero circa ottocento anni per essere fissate, con opportune aggiunte, trasformazioni ed elaborazioni, nella definitiva stesura del testo biblico.

L’operazione di sintesi, se così si può dire, si ampliò fino a comprendere i grandi patriarchi del passato, cui si attribuì una fede religiosa rigorosamente monoteista e un rapporto dialogico con il proprio Dio, stabilito nella notte dei tempi, fin dalla creazione del mondo.

La “costruzione” mitologica, cui neanche le grandi religioni si sottraggono, sembra seguire uno schema e una procedura che si ripete nei suoi canoni essenziali.

Ogni gruppo sociale ha prodotto, nel corso della sua storia, leggende, miti ed epopee che pur nella loro diversità per quantità e qualità, rispettano sempre un impianto strutturale, talmente analogo nella sostanza da far sospettare una diffusa osmosi culturale che, in molti casi, è compatibile con l’instaurazione di contatti per ragioni migratorie, commerciali o militari.

In altre situazioni, invece, il nesso di contiguità è meno evidente o addirittura assente per l’enorme distanza di tempo e di spazio in cui si sono verificate le medesime “intuizioni”.

Plausibile supporre che il pensiero umano, abbia elaborato i contenuti fantastici seguendo dei “modelli” univoci (creazione – età felice – dannazione o castigo – dono – rinascita) resi esteriormente dissimili da secondari apporti storico-ambientali.

Freud parlò chiaramente di storia, recepita come cronaca dei fatti, “uccisa” dall’insopprimibile bisogno umano di adulterare, attraverso il mito, una semplice sequenza di eventi logici e lineari non corrispondenti, in parte o del tutto, a esigenze spirituali. A livello psichico individuale chiamò questo intervento “rimozione”, attuato attraverso meccanismi di spostamento, condensazione, conversione, sublimazione, non a caso i medesimi che governarono la formazione dei miti.

Ma poiché non esiste “delitto” perfetto se non è favorito da omissioni, insipienza o complicità da parte di chi indaga, gli indizi, per quanto esili o fraudolentemente manomessi, non possono essere cancellati totalmente; rimane sempre qualche traccia percorribile a ritroso.

Resta da valutare se nel caso dei miti – la scelta è soggettiva – sia più gratificante, per l’anima umana, rinvenire una cronaca ossuta, accantonando il fastoso racconto, o rinverdire una favola illusoria che, mascherando angustie penose, dia qualche significato all’esistenza.

 

Immagine 1: Mosè salvato dalle acque; Gian Battista Tiepolo (1696-1770)

Immagine 2: Mosè e il vitello d’oro; Nicolas Poussin (1594-1665)

 

 

© 9 Marzo 2011

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