Trieste: Donawitz, Ferriera di Servola, Severstal e la riconversione portuale
Abbiamo appena riscritto, ora in sinergìa con un’inchiesta de Il Fatto quotidiano, dei livelli d’inquinamento abnormi e letali della Ferriera di Servola e della possibilità e necessità di riconvertire rapidamente l’area ad uso portuale conservandone ed anzi aumentandone da due a tre volte i posti di lavoro (qui gli articoli ed i link).
Ma rimangono almeno due cose fondamentali da chiarire: perché non è affatto vero che per avere un impianto siderurgico si debbano sopportare inquinamenti, e qual è la situazione tecnica, economica e di mercato reale dell’impianto di Servola che ne impone comunque la chiusura con riconversione portuale, come già proposto da Lucchini-Severstal.
Donawitz, la ferriera sorella di Servola
Sul primo punto, basta andare a vedere i livelli elevatissimi di compatibilità ambientale dell’acciaieria di Donawitz, nata sorella austro-ungarica della Ferriera di Servola, ma favorita dalla storia.
Perché Donawitz trovandosi a Leoben in Stiria, rimasta in Austria dopo il 1918 e condotta con i criteri tecnici, economici, sociali ed ambientali più avanzati, oltrea produrre e guadagnare non inquina: come si vede qui da una foto eloquente degli impianti alle pendici boscose intatte del Bärnerkogel, con il camino di 115 metri dell’altoforno (al margine sinistro) ed in primo piano il quartiere-giardino operaio realizzato tra il 1904 ed il 1915.
Mentre Servola è finita con Trieste in Italia, dove questi e troppi altri impianti industriali pericolosi vengono ancora gestiti con criteri di sfruttamento fallimentari ed inquinanti letali, da terzo mondo. Ai quali è arrivato il momento di ribellarsi tutti assieme, operai, tecnici e cittadini, per salvare il lavoro, la vita e la salute di tutti.
Due storie parallele sino al 1918
Hüttenwerk Donawitz è l’acciaieria stiriana di fama mondiale del Gruppo Voestalpine. Produce 1,5 milioni annui di tonnellate d’acciaio (4000 tonnellate al giorno), per la gran parte rotaie ferroviarie di cui è la maggior produttrice d’Europa, incluse quelle da 120 metri, le più lunghe del mondo. A Donawitz la tradizione siderurgica risale al 1436, ma ha sviluppo moderno come a Trieste dalla seconda metà dell’800, tra il 1868 ed il 1881, con il collegamento ferroviario della Kronprinz-Rudolfs-Bahn carinziano-stiriana alla Südbahn Trieste-Vienna. Nel 1881 viene così costituita la Ősterreichisch-Alpine Montangesellschaft – OAMG riunendo le acciaierie della Stiria e della Carinzia, con stabilimento principale a Donawitz che nel 1916 raggiungerà la produzione massima di 410mila tonnellate.
Mentre nel 1896-97 la consorella Krainische Industrie Gesellschaft – Kranjska Industrijska Družba, di Lubiana, proprietaria anche dell’acciaieria di Assling-Jesenice, trasferisce la produzione di ghisa e ferroleghe nel porto di Trieste, nel tratto di costa libero alla base del colle di Servola, per il trasporto diretto via mare delle materie prime, come il carbone inglese, e della produzione. Nel 1913 l’impianto viene ampliato con un terzo altoforno e un’acciaieria con due forni Martin e catene di produzione per lingotti (billette) e lamiere. Diviene così parte integrante del grande complesso cantieristico navale triestino che produceva direttamente sia le lamiere che i motori, la carpenteria e l’arredamento.
Ma queste due storie parallele di iniziativa e sviluppo industriale sin interrompono dalla fine della prima guerra mondiale con la dissoluzione della loro matrice economica e politica comune, l’Impero austro-ungarico.
A Donawitz dopo il 1918
Donawitz perse così gran parte dei mercati interni, fu oggetto (con il c.d. “affaire Kola”) delle operazioni finanziarie italiane per controllare l’economia della nuova piccola repubblica austriaca, e patì la crisi mondiale del 1928-30. Nel 1941 venne inglobata dal sistema siderurgico militare della Germania nazista, ma trovandosi in una stretta valle alpina non subì i bombardamenti a tappeto. Finita la guerra, dopo breve occupazione sovietica cui subentrò nel giugno 1945 quella britannica, venne nazionalizzata e riavviata, come gli altri stabilimenti dell’ÖAMG, col Piano Marshall puntando sulla produzione di rotaie ferroviarie. Nel 1973 la ÖAMG si fuse con la VÖEST (Vereinigte Österreichische Eisen- und Stahlwerke AG) nella VOEST-ALPINE AG, ora Voestalpine AG, ed attribuita alla sua Division Bahnsysteme, ora Metal Engineering Division.
Dal 1991 la fabbrica di Donawitz è divisa in tre unità produttive: per l’acciaio la VOEST-ALPINE STAHL DONAWITZ GmbH, per i grandi trafilati la VOEST-ALPINE SCHIENEN GmbH, e per trafilati e lamiere la VOEST-ALPINE AUSTRIA Draht GmbH. Vi è stata aggiunta dal 1999 la produzione di energia nell’Energiepark Donawitz (EPD, con la STEWEAG-STEG GmbH di Energie Steiermark) che produce e distribuisce energia elettrica e riscaldamento agli impianti e a terzi.
Il volume d’affari complessivo delle tre unità supera il miliardo di euro per una produzione annua da 1 ad 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. La Steweag-Steg si occupa inoltre di centrali elettriche a livello europeo.
Gli impianti di Donawitz si estendono su 21 ettari, vengono continuamente modernizzati ed occupano oltre 2300 operai. La massima compatibilità ambientale è stata perfezionata con un investimento di 150 milioni di euro adottando le tecnologie più avanzate per il deposito e la lavorazione dei materiali, le emissioni, i monitoraggi, il prelievo e trattamento delle acque, lo smaltimento dei residui di lavorazione, mentre le vecchie discariche sono state sostituite e risanate dal 1995 dall’apposito fondo generale di Stato (Altlastensanierungsfond).
A Servola dopo il 1918
Dal 1918 la Ferriera di Servola si trovò invece con Trieste ed il suo porto nei territori del Litorale austriaco occupati e poi annessi dal Regno d’Italia, proprietario dei maggiori porti ed impianti siderurgici concorrenti. Dal 1924 fu incorporata nella “Società Altiforni e Acciaierie della Venezia Giulia” e dal 1931 nella parastatale ILVA (IRI-Finsider), che vi fece ammodernamenti ed ampliamenti tecnici. Dal 1947 l’Italia ha perduto la sovranità su Trieste con obbligo di cederle anche i beni parastatali, ma dal 1954 il Governo italiano ha ottenuto l’amministrazione provvisoria del territorio senza adempiervi. Così nel 1961 la Ferriera venne passata all’Italsider, creata dall’ILVA, che dismise l’acciaieria austriaca ed ampliò il reparto fonderia per sola la produzione di ghisa, e nel 1982 la cedette all’apposita “Attività Industriali Triestine” delle acciaierie italiane IRI-Finsider di Terni.
Nel 1988 lo stabilimento triestino (ma non le aree che rimangono portuali) viene privatizzato cedendolo al gruppo Pittini, che ammoderna l’altoforno e costruisce una nuova acciaieria, conservando la produzione di ghisa. Ma con la crisi di mercato del 1993 la Ferriera viene commissariata con blocco di tutti gli impianti fuorché la cokeria. Nel 1995 passa a Lucchini-Bolmat, che riavvia gradualmente gli impianti occupando circa 600 dipendenti, ma nel 2002 chiude l’acciaieria tenendo in vita solo l’altoforno per la ghisa, la cockeria e la centrale termoelettrica. Dal 2005 il colosso siderurgico russo Severstal acquisisce il 62 e poi il 100% della Lucchini. Che nel 2012 entra in crisi, chiede l’amministrazione straordinaria e viene commissariata dal Ministero per lo Sviluppo economico.
La crisi attuale e gli inquinamenti letali
Si arriva così alla crisi attuale, in cui la Ferriera triestina di Servola è ridotta a produrre solo ghisa ma, pur essendone l’unica
produttrice sul mercato italiano, non ha prospettive credibili di sviluppo perché, a differenza totale dall’antica consorella austriaca di Donawitz, è stata e viene tenuta in condizioni ambientali interne ed esterne da terzo mondo che le fanno produrre anche livelli d’inquinamento atmosferico, terrestre e marino non solo abnormi, ma letali.
Le due foto che pubblichiamo qui sull’inquinamento atmosferico e marino di Servola parlano da sé (anche a confronto con quella di Donawitz) mentre i dati chimici ed epidemiologici confermano emissioni e dispersioni gravissime di inquinanti tossico-nocivi nel suolo, nel mare e nell’atmosfera, dove le percentuali di benzoapirene cancerogeno risultano da due a tre volte quelle dell’Ilva di Taranto, con sinora il doppio dei decessi (1959) e malattie in proporzione, sia tra i circa 500 lavoratori addetti, sia tra la popolazione residente vicina (oltre 11.000 persone).
Affermare in queste condizioni la regolarità ambientale dello stabilimento non è solo ridicolo, è delinquenziale: emissioni inquinanti disastrose ed assassine di questo genere possono e devono soltanto essere fatte cessare immediatamente secondo legge, umanità e ragione, individuandone e processandone i potenti corresponsabili privati ed istituzionali per i corrispondenti reati gravissimi. Ed è uno scandalo amministrativo e giudiziario colossale che questo non sia stato ancora fatto.
La situazione tecnica ed economica reale
In sostanza, la Ferriera di Servola per poter continuare a funzionare legalmente ed avere un futuro economico deve venire chiusa, bonificata e ricostruita portandola almeno ai livelli di Donawitz per compatibilità ambientale, efficienza produttiva e gestione imprenditoriale sui mercati europei e mondiali.
Questo pone però il problema altrettanto grave degli attuali circa cinquecento operai e tecnici siderurgici più altrettanti delle attività indotte, in tutto un migliaio di lavoratori e famiglie, che non possono venire lasciati senza lavoro.
Ma allo stato dell’economia europea e mondiale neanche la ricostruzione a norma degli impianti ha le prospettive economiche e di mercato necessarie per giustificare gli enormi investimenti pubblici e privati necessari, che superano comunque le ridotte possibilità ed offerte dei candidati attuali al subentro, come ora il gruppo Arvedi.
Le bugìe di politici e sindacati di partito
Politici e sindacati di partito, dalla destra alla sinistra, continuano invece a far credere agli operai e tecnici disperati della Ferriera e delle attività indotte che vi sarebbero possibilità di conservazione e sviluppo dello stabilimento senza doverlo chiudere e ricostruire. Ma sono soltanto illusioni e chiacchiere irresponsabili, con la quale quei politici e sindacati stanno peggiorando sia la situazione dei lavoratori, sia quella degli inquinamenti letali, e per due motivi intollerabili.
Il primo è che non la sanno o non la vogliono affrontare, né lasciarla risolvere a chi sa e può farlo, e tantomeno mollare poltrone dalle quali andrebbero cacciati già solo per questo, mentre pretendono pure di occupare o sottomettere l’Autorità Portuale perché non obbedisce a partiti e speculatori ma all’interesse pubblico.
Il secondo motivo è che tirare in lungo con false promesse l’agonia della Ferriera e dei cittadini avvelenati, evitando soluzioni produttive diverse, lascerebbe alla fine liberi ettari di terreno prezioso a costo minimo, perché da bonificare, per privatizzazioni e speculazioni edilizie ed immobiliari parallele a quelle che gli stessi politici di sinistradestra vogliono già imporre illegalmente nel Porto Franco Nord.
Tant’è vero che costoro non solo fingono di ignorare il progetto portuale che risolverebbe l’intero problema, ma di fronte alle nostre inchieste propositive locali, ed ora a quella nazionale de Il Fatto Quotidiano, gridano addirittura al complotto (sindaco Cosolini, 23.10) sul loro quotidiano di servizio Il Piccolo.
Che a loro sostegno ha esposto (sempre il 23.10) persino il pm e facente funzioni di Procuratore capo Federico Frezza, attribuendogli dichiarazioni con le quali il magistrato avrebbe smentito pubblicamente a priori, ed in corso d’indagine penale sua e perizia dell’ARPA, gli smaltimenti di catrame denunciati illegali e documentati con un video da alcuni operai alla Procura, e da Il Fatto Quotidiano in rete.
Il progetto portuale Lucchini-Severstal
Politici sindacati e media locali sembrano cioè voler nascondere sinora tutti, fuorché noi Voce indipendente, la sola cosa concreta e realistica che si può e deve fare rapidamente (e che l’Autorità Portuale ha tentato di avviare già dal 2004) per trasformare in lavoro e sviluppo veri questa situazione criminale e disastrosa per lavoratori e cittadini.
Cioè avviare immediatamente la riconversione dell’area della Ferriera all’uso esclusivo portuale, con estensione del regime di free port, porto franco internazionale (senza spostarlo dal Porto Franco Nord) ed in sinergìa con la nuova piattaforma logistica adiacente appaltata dall’Autorità Portuale, offrendo a tutti i dipendenti della Ferriera garanzia di impiego già da subito nelle attività di riconversione.
L’indirizzo di progetto esiste già, ed è quello perfettamente adeguato già proposto dal gruppo Lucchini-Severstal (leggi qui il documento) che prevede a regime oltre 1600 nuovi posti di lavoro, con investimenti ragionevoli rispetto alle previsioni credibili di rientro e sviluppo, e procurabili in compartecipazione pubblica e privata, anche internazionale come il regime di porto franco, con possibilità di interesse ed investimenti che vanno dalla Russia agli Usa, ai Paesi Arabi ed alla Cina.
Lo sfruttamento almeno parziale di queste possibilità è anche l’obiettivo reale dell’offerta formalmente industriale del gruppo Arvedi, che sembra però voler spendere il minino attingendo al massimo di denaro pubblico col favore del sindaco Pd Cosolini e dell’amministrazione regionale Pd Serracchiani.
Ma sinora la Voce è stata la sola ad avere scritto di tutto questo denunciando i silenzi e le complicità irresponsabili di politici, sindacalisti e loro stampa di sistema.
Unire le forze di lavoratori e cittadini
Che la riconversione portuale sia l’unica soluzione possibile e necessaria per salvare lavoratori della Ferriera e popolazione è a questo punto evidente. Ma è altrettanto evidente per chiederla ed ottenerla è necessario fare finalmente con coraggio e lucidità tre semplici cose: unire sull’obiettivo le forze degli operai e tecnici che stanno perdendo il lavoro e della popolazione avvelenata; emarginare politici e sindacalisti inadeguati; esigere che la riconversione non venga gestita da partiti, ma dal solo organo istituzionale e tecnico che vi ha giurisdizione e competenza indipendente, che è l’Autorità Portuale con il suo Comitato portuale rappresentativo delle imprese, dei lavoratori e delle istituzioni.
Perché i nostri lavoratori ed i nostri disoccupati in aumento continuo non si possono più permettere di lasciare i destini propri e delle loro famiglie in mano alle inettitudini, bugìe ed arroganze del cabaret politico locale assurdo e sempre più equivoco di sinistradestra dei Cosolini, Serracchiani, Rosato, Russo, Menia, Antonione e del resto dei loro corteggi e clientele comunali, provinciali e regionali. Cioè di tutti quelli che col sostegno sfacciato de Il Piccolo insistono a giocare alla politica di cortile lasciando affondare nella povertà mezza Trieste.
© 25 Ottobre 2013