Assistenza sociale: obbligo di legge del Comune
La società tradizionale antica considerava sacro il dovere di compassione e soccorso verso i poveri ed i sofferenti, ed empietà il rifiutarlo. Come fanno invece le società dell’egoismo consumista moderno, che tendono ad ignorarli e addirittura perseguitarli. Nella convinzione stolida, inoltre, che soccorrerli sia uno spreco, mentre é un riequilibrio essenziale dell’economia sociale, come tale produttivo.
Ed é così che a Trieste dal 2004 l’amministrazione comunale Dipiazza, di centrodestra, avevatagliato brutalmente le assistenze sociali a favore di spese più grate, ed un anziano invalido ne era morto di freddo ed inedia. Ma protestavano solo i sindacati, e l’amministrazione li ignorava.
Chi scrive denunciò allora sindaco e giunta alla Procura per violazione degli obblighi di assistenza del Comune, abbandono di incapaci ed omicidio colposo. L’iniziativa era perfettamente fondata in fatto e diritto, apriva un caso-pilota in Italia ed ebbe perciò echi nazionali.
Ma a Trieste venne minimizzata e poi censurata dal Piccolo, ignorata da partiti e sindacati, sinistra inclusa, e perciò facilmente archiviata dalla Procura. Lasciando così crescere povertà sempre più devastanti.
Incoraggiata dal successo, nel 2010 l’amministrazione Dipiazza si era messa anche a perseguitare empiamente i poveri nelle vie cittadine con ordinanze infami, contro le quali facemmo una dura campagna stampa sul nostro diffuso settimanale di allora, Il Tuono.
Nell’indifferenza però totale della dirigenza cittadina, sinistra inclusa, i cui intellettuali si mossero solo per i musicanti di strada. Gli altri perseguitati erano troppo silenziosi ed inestetici, tanto che per far cessare quelle infamie qui come altrove c’è voluta una sentenza di Cassazione.
E quando i dipiazzisti tolsero le panchine ad alcuni senzatetto e disperati più visibili, l’intellighenzia locale si esibì in brevi indignazioni etico-politiche sul gesto, ridimenticando poi rapidamente l’esistenza dei poveri.
Tant’è vero che in quest’anno 2012, con un’amministrazione comunale nuova di centrosinistra (Cosolini), alla vigilia del grande freddo d’inizio febbraio sono state tolte ai senzatetto, e con essi ai viaggiatori, anche le panchine delle stazioni ferroviaria e delle autocorriere.
Con oltre una settimana di gelo e bora assiderante sino 160 kmh, che uccide in mezz’ora di esposizione non protetta. Com’è infatti accaduto ad una donna caduta per strada e rimasta terra di notte senza soccorsi. Mentre il Piccolo ha annunciato un raddoppio dei decessi in quei giorni presentandolo come una coincidenza inspiegata.
Spiegabile invece col fatto che se Comune e volontari hanno provveduto in qualche modo ai senzatetto, non risultano soccorsi adeguati per il numero crescente di persone, in buona parte anziane, malate o con bambini piccoli, cui povertà vecchie o nuove non consentono di riscaldare l’abitazione. Che assume perciò la temperatura esterna, o pochi gradi in più, facendoti vivere quasi come all’addiaccio.
Il volontariato e le solidarietà personali meritano ovviamente ogni riconoscenza per quello che riescono fare. Ma la pubblica amministrazione ha obblighi di assistenza primari ben precisi, e la si deve obbligare a rispettarli anche sotto il profilo delle responsabilità civili e penali, senza sconti politici per nessuno.
Ve ne proponiamo quindi a titolo d’inchiesta una sintesi che speriamo chiara ed utile per tutti:
1. L’assistenza sociale è obbligo di legge primario ed inderogabile per la pubblica amministrazione che vi é delegata.
La ragione fondante del patto sociale è garantire al meglio la sopravvivenza di tutti i membri della comunità attraverso forze e risorse perciò messe in comune. E non per scelta politica, ma per necessità naturale e vitale di protezione reciproca. Che troviamo perciò codificata come principio di solidarietà nella morale e nel diritto, ma anche in economia, poiché il prosperare armonico di una comunità è il prodotto del benessere del maggior numero possibile dei suoi appartenenti.
Il principio di solidarietà, che si concreta nel soccorso proporzionato ai più deboli, è perciò la regola costitutiva (metaregola) fondamentale della consociazione umana, poiché senza solidarietà non esiste vera comunità.
Nel diritto italiano questa metaregola è enunciata dalla Costituzione all’art. 38: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. (…) Ai compiti previsti da questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.»
È stata inoltre perfezionata ed estesa anche ai non-cittadini dalla ratifica, nel 1955, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che ne enuncia all’art. 3 enuncia il «diritto alla vita», all’art. 22 il «diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.» ed all’art. 23, nn. 1 e 3, assieme al diritto al lavoro, anche quello alla «protezione contro la disoccupazione» e ad una remunerazione che assicuri, anche alla famiglia, «una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale».
Siamo quindi di fronte a norme che non possono essere derogate per scelta politico-amministrativa, e nemmeno legislativa ordinaria, ma solo con modifiche costituzionali e di accordi internazionali.
L’ordinamento italiano delega i compiti di assistenza sociale a vari organi ed istituti, ed in particolare ai Comuni, che ne diventano così garanti obbligati in proprio, cioè con i propri mezzi finanziari e strutturali, sia nei confronti della legge che delle persone che hanno diritto alle assistenze.
La natura costituzionale primaria di questa delega condiziona perciò la gerarchia degli scopi dell’ente delegato, e dunque delle sue scelte operative e finanziarie.
Obbligandolo, in concreto, a subordinare all’adempimento degli obblighi di assistenza sociale, come degli altri obblighi costituzionali primari di garanzia sociale (sanità, sicurezza, lavoro, ecc.), tutte le attività e spese di natura secondaria o non obbligatoria.
2. Costituisce abuso d’ufficio il comportamento dei pubblici amministratori, nella fattispecie comunali, i quali víolino gli obblighi assistenziali di legge sottraendovi, a beneficio di attività secondarie o non obbligatorie, risorse finanziarie ed operative in danno ingiusto e grave agli aventi diritto nonché ingiusto vantaggio proprio e di terzi.
Per gli esaminati principi dell’ordinamento e le specifiche norme attuative in materia di assistenza sociale gli amministratori di un ente pubblico delegato ad erogarla non hanno dunque la facoltà discrezionale di subordinarla o limitarla a beneficio di attività non obbligatorie o di natura secondaria.
E questo anche quando l’ente svolga, come i Comuni, anche compiti diversi dall’assistenza sociale o dalle altre garanzie sociali primarie, e quando la legge non gli ponga un limite massimo o minimo di spesa assistenziale, che rimane perciò limitata soltanto dall’entità variabile delle effettive risorse di bilancio destinabili.
Questo è esattamente il caso del Comune, quale ente amministrativo territoriale di base e con diverse funzioni. Nell’ambito delle quali la natura obbligatoria e prioritaria dell’assistenza sociale, e delle altre garanzie primarie, fa perciò obbligo agli amministratori sia di accertare e monitorare attendibilmente lo stato di bisogno dei componenti la comunità amministrata, sia di formare ed attuare rigorosamente una gerarchia di impiego delle risorse economiche distinguendo le spese obbligatorie di natura primaria, assistenza sociale inclusa, da quelle di natura secondaria o non obbligatoria.
L’opinione e pratica diffusa della discrezionalità politica in materia , e con essa dell’applicabilità di restrizioni ideologiche alle assistenze sociali, non ha dunque fondamento giuridico. E costituiscono perciò violazione di legge tutti gli atti e le decisioni degli amministratori che in presenza di effettive disponibilità finanziarie dell’ente riducano le spese di assistenza sociale, obbligatorie e prioritarie, a beneficio di attività secondarie o non obbligatorie.
Siamo quindi nell’ambito delle fattispecie penali dell’abuso d’ufficio, della truffa (nei confronti degli aventi diritto alle assistenze surrettiziamente negate, dell’abbandono di incapaci, delle lesioni o dell’omicidio colposi, dell’induzione al suicidio, e della falsità idologica.
Il dolo, in questo caso, va presunto poiché chi si candida pubblico amministratore ne assume anche il dovere di conoscere e rispettare le leggi, e si deve supporre dotato almeno di buonsenso e sensibilità etica normali. Tantopiù quando le carenze assistenziali vengano denunciate dagli aventi diritto o da parti sociali.
Mentre l’aspetto dell’ingiusto vantaggio o profitto di natura patrimoniale dei pubblici amministratori a beneficio proprio o di terzi nel distrarre somme dagli obblighi di assistenza sociale per destinarli ad altro assume aspetti molto concreti, anche se forse non immediatamente percepibili.
Le spese secondarie o non obbligatorie così indebitamente privilegiate producono infatti quasi tutte maggiore consenso politico-elettorale di categorie e soggetti influenti (i poveri non lo sono) ai quali forniscono benefici e profitti, favorendo così anche la permanenza o la rielezione in carica dei politici responsabili, che ne guadagnano i poteri e le remunerazioni connessi.
E questo vale sia per le riduzioni in sé della spesa assistenziale (in erogazioni di somme e servizi, personale e strutture), sia per gli espedienti, ovvero artifizi e raggiri, posti in atto per giustificarle.
Che nel caso del Comune di Trieste sono sinora consistiti nell’omettere qualsiasi censimento efficace del bisogno, mantenere insufficienti somme, strutture e personale addetto, e limitare artificiosamente il numero degli aventi diritto innalzando o non aggiornando i parametri economici oggettivi di erogazione (soglia di povertà, età ed altri criteri di valutazione del bisogno).
L’assolvimento degli obblighi di assistenza sociale consiste infatti, come per quelli di sanità pubblica, nell’erogazione alle persone bisognose di beni e servizi concreti, commisurati alle situazioni di bisogno reale accertate, sia sin sé che in rapporto al costo obiettivo della vita, valutato di norma sui prezzi correnti di un elenco di spese necessarie ed essenziali per una sopravvivenza dignitosa.
E non si può affatto “ridurre il bisogno”, come sosteneva qui un altro sindaco anni addietro, con scelte politiche a priori sul bilancio dell’ente.
Il danno ingiusto causato alle persone ed alla comunità con le omissioni o carenze assistenziali è inoltre notorio, concreto ed immediato, e comporta anche pesanti responsabilità civili e penali a carico dei responsabili.
Nel concreto infatti i singoli e le famiglie privati delle assistenze doverose adeguate e tempestive si trovano infatti alla fame, privi di corrente elettrica e gas, o senza più casa. Cioè in condizioni di emarginazione e degrado che incidono gravemente anche sulla salute fisica con esiti che possono condurre a morte, e sulla salute mentale, inducendo anche al suicidio, e spingono spesso le vittime a commettere per disperazione e/o squilibrio reati di vario genere.
Quanto, infine, alla legittimazione a denunciare i relativi reati perseguibili a querela di parte o d’ufficio, ed a costituirsi parte civile nel giudizio, essa non appartiene solo ai diretti interessati ed alle organizzazioni rappresentative di interessi collettivi, ma anche ai singoli cittadini.
L’erogazione regolare ed efficace delle assistenze sociali dovute è infatti un interesse legittimo sia collettivo che individuale di cui è naturale portatore ogni cittadino della Repubblica.
© 10 Marzo 2012