Trieste: la Ferriera che minaccia di chiudere e la città che affonda, tra classe dirigente imbelle o complice ed informazione drogata
Editoriale
Per Trieste la Ferriera di Servola, che il 19 gennaio ha minacciato di chiudere entro fine mese, significa tre cose concrete: oltre 1000 posti di lavoro tra diretto ed indotto, che non si possono perciò rinunciare senza alternative reali; un inquinamento pesante, continuo e drammatico in città ed oltre, che deve cessare; una vasta area portuale degradata ma appetibile per colossali speculazioni edilizie, lecite ed illecite. Come già quella sul Porto Franco Nord, ora denunciata penalmente per truffa pluriaggravata allo Stato, ed altro ancora.
Politica e Confindustria locale si sono attivati per salvare l’azienda, ma come al solito all’ultimo momento e dando l’impressione di vivere altrove. Esemplare la dichiarazione virtuosa che il presidente degli industriali Sergio Razeto, del quale abbiamo già scritto criticamente (leggi qui) ha rilasciato al quotidiano locale del 20 gennaio: «Perdere mille posti di lavoro a Trieste è una prospettiva a cui non voglio nemmeno pensare. Se mille famiglie triestine si trovassero senza la garanzia dello stipendio del capofamiglia sarebbe un fatto di gravità estrema. Mi interesserò immediatamente della situazione.» Ed altrettanto vanno dichiarando i politici.
Più che giusto e doveroso. Ma perché questa stessa dirigenza politica ed economica locale non ha reagito ancor più decisamente anche alla notizia dei sindacati che negli ultimi due anni la città ha già perso 10mila posti di lavoro, cioè venti volte quelli della Ferriera da difendere adesso? Eppure corrispondono, con le famiglie, ad oltre 30.000 persone, ed in una città già regredita per emigrazione economica continua a 205.000 abitanti, rimanendo con una percentuale abnorme di anziani e fasce sempre più rapidamente crescenti di povertà, dai disoccupati ai pensionati minimi.
La verità è che quest’emorragìa economica abnorme continua a passare sotto disattenzione politica e di stampa perché è prodotta, più che da industrie, dalla chiusura di piccole e medie attività commerciali, artigiane e di servizio, che colpisce quasi nella stessa misura sia il lavoro dipendente che quello autonomo.
Distruggendo così il tessuto economico-sociale più diffuso e versatile, che a differenza dall’industria non può essere sostituito facilmente da attività nuove, né sorretto dalla cassa integrazione. Ed è formato in maggioranza da persone di media età, ancora più difficilmente reimpiegabili dei giovani, e con famiglia a carico ma lontane dalla sicurezza minima della pensione.
In un collasso della città che prevedibile e previsto, che sta accelerando ad effetto valanga: la mancanza di denaro fa chiudere le attività, e la loro chiusura incrementa la mancanza di denaro. Sino a travolgere gradualmente anche categorie sinora abbastanza protette.
Insomma, Trieste sta affondando a vista d’occhio mentre la sua classe dirigente politica ed economica, che non dovrebbe dormire la notte per fare il suo dovere attivando i rimedi, dorme invece benissimo su tutti i problemi della gente comune. Col sostegno decisivo delle dosi d’informazione frivola e narcotica che il quotidiano monopolista locale continua a propinare ogni giorno a tutta la città nascondendo o minimizzando molte delle cose che perciò finiamo per scrivere solo noi.
Eppure, come abbiamo già tanto detto e ripetuto, i rimedi da attivare, subito e con priorità responsabile su ogni altro impegno, sono evidenti: adeguare senza più remore l’assistenza sociale al bisogno concreto delle persone e famiglie in difficoltà, e puntare contemporaneamente tutte le energie sul rilancio del Porto, ed in particolare del Porto Franco (intero), che è la nostra unica, fortunata risorsa per creare rapidamente nuovi posti di lavoro diretto ed indotto per tutti, dal manovale generico allo specialista.
Ed invece questa classe dirigente continua sfacciata, con singole eccezioni di poco peso, a raccontarci in coro la storiella dello sviluppo futuro attraverso la scienza, il turismo e la cultura, ed a vantarsi delle statistiche stampa più ipocrite sul benessere locale; mentre in concreto appoggia le speculazioni edilizie, incluse quelle illecite nel porto (vedrete cos’è emerso dall’inchiesta-denuncia penale completa che stiamo per pubblicare); e la Confindustria di Razeto, ma non è il solo, appoggia persino i rigassificatori che ne paralizzerebbero il traffico.
Va detto dunque chiaro che tutto questo conduce con sempre maggiore evidenza alla riduzione, intenzionale o meno, di Trieste ad un’oasi residenziale tranquilla per i privilegiati e garantiti, riducendo in miseria tutti gli altri a servirli in condizioni precarie, emigrare o crepare.
Con mentalità, sensibilità e senso delle proporzioni efficacemente riflessi dalle recenti dichiarazioni che il milionario Riccardo Illy, ex sindaco e ‘governatore’ regionale eletto e tuttora esaltato dalla pseudosinistra politica locale, ha rilasciato allo stesso quotidiano contro le nuove tasse di ormeggio delle barche da diporto: indignato, vuol vendere per protesta la sua barca di 13 metri, dato che dovrebbe spendere ben 2.900 euro di tassa l’anno; e questa sì che è una vera ingiustizia…
Se dunque le ragioni della crisi sono fatti oggettivi, come le condizioni del mare che mettono in pericolo una nave, la capacità di affrontarla e risolverla o meno è requisito soggettivo del gruppo di comando. Che non dev’essere né imbelle, né dissennato, né complice. E vi sono ormai pochi dubbi sensati che il gruppo di comando politico ed economico attuale di Trieste vada sbarcato e sostituito.
Ma prima possibile, e con un’ondata d’indignazione popolare forte, solidale, unitaria e responsabile.
Paolo G. Parovel
© 22 Gennaio 2012