La Voce di Trieste

Una notte di delizia con Capitan Vinicio

di

Il concerto al Rossetti chiude il tour “Marinai, Profeti e Balene” di Vinicio Capossela

Due ore e passa di concerto se ne sono andate, quando Vinicio Capossela, a piccoli passi sul tappeto dei suoi applausi, torna infine da solo sul palco; e si siede al pianoforte. C’è qualcosa di magico nell’aria. Forse quel lume da bettola miserrima di periferia della Le Havre di Kaurismaki; forse quei coriandoli o cosa diavolo sono, illuminati come ti immagineresti in una fiaba che scalda i cuori, unendoli di un raro collante. Entra un cameriere. Porge prima una, poi due birre gelate a un capitano assetato. Il pubblico è già in piedi, coi cappotti in braccio, le mani giunte, rapito. Capossela strimpella un motivetto a caso, irretendoci con un discorso folle, imperscrutabile, che ci porta già confusi, in improvvida antitesi rispetto ad Ulisse, a perderci nel canto delle sirene.

 

Teatro Rossetti, giovedì 22 dicembre: l’ultimo approdo del tour teatrale di Marinai, Profeti e Balene. Disco per cui i peana si sono sprecati, ma sul quale i caposseliani si sono divisi. Chi si era atteso il Vinicio ebbro, imperfetto e folgorante dei lavori precedenti (Ovunque Proteggi su tutti) è rimasto spiazzato: felicemente, mestamente: de gustibus. Era tuttavia innegabile che nella sua “ciclopedica Marina Commedia fuori misura” avesse dato eccessivo peso all’esattezza formale, dimentico dei palpiti del cuore che i genii devono saper donare. Sì, è vero, è disco di platino da un bel po’ e si è aggiudicato pure la Targa Tenco, va detto, in compagnia di altri artisti premiati più per l’anagrafe che per la bontà degli ultimi lavori (Vasco Brondi); l’hanno registrato in tutti i luoghi e laghi, da New York a Barcellona, da Milano a Berlino, da Ischia a Capodistria; è colmo di citazioni colte, da Omero, Melville, Conrad, Céline e financo dalla Bibbia; esonda in ricchezza di arrangiamenti, tracima di strumenti e suonatori “strani”, nell’accezione di Carlo Verdone in Viaggi di nozze: ma era, ed è tuttora, un disco che non convince appieno.

Ad avvalorare questa tesi, due elementi in primis: il primo è l’afflusso del pubblico, alto ma non altissimo, ben lungi dal tutto esaurito, a riprova che forse il disco non è piaciuto quanto si è piaciuto; l’altro, certo più importante, è una teatralità sapientemente architettata e palesemente ostentata, sfarzosa, quasi a voler spostare l’attenzione dalle canzoni alla loro presunta cornice ideale: i giochi di luce – straordinari -, le costole meccaniche della balena ipotetica ad aprire e chiudere sulla ciurma di suonatori, le ballerine in costume, il mago e la spogliarellista, la giacca di pailettes a forma di polipo, cose così. Graziose strampalaggini anche belle a vedersi, entro certi limiti.

Per fortuna il palco, l’aria, l’interscambio col pubblico, levano la polvere dalla cattedra del maestro, donandole nuovo lustro. Tutto suona meglio, pare più vivo. Il disco, riproposto in siffatte vesti, regge clamorosamente. Al punto da far risultare quasi inopportuni i pochi ripescaggi dagli album precedenti, Il Ballo di San Vito e Ovunque Proteggi, che magari poteva trovare massima sublimazione alla fine, ai bagliori del lume di cui sopra, ma certe notti ci si deve accontentare.

La resa, dicevamo, è sontuosa. Capossela non stecca né sbaglia una nota. Minuzie, si dirà: ovvio. No. Non di questi tempi, dove possedere una bella voce e saperla modulare come Dio comanda, specie dal vivo, è visto alla stregua di un optional: se un artista paurosamente stonato ti provoca l’otite, ehbbeh allora è colpa tua, del tuo animo insensibile incapace di travalicare la mera forma: non sarà forse additabile anche a tale andazzo, il surclassamento abissale di cantantucoli vuoti e diafani, ma dotati di vocalità classicamente godibili, come i Mengoni e le Amoroso, ai danni della leva cantautorale degli Anni Zero, da Dente a Iosonouncane?

Capossela delizia, e non solo per la pulizia, per la leggerezza: proprio per quel suo timbro, inconfondibile e suadente all’inverosimile, vibrante ora come quella sera di dieci anni fa in cui il geniale – sempre e comunque – Daniele Luttazzi lo presentò agli spettatori di Satyricon. Una voce percorsa da sfumature infinite, che, parafrasando Guccini, dovrebbe fare del cinema (e magari radio, audiolibri, voce-guida ufficiale per Garmin o TomTom).

Ma forse è meglio tenerselo lì, Capossela, come quelle figurine di un tempo, belle e rare, da serbare e non vendere mai, al massimo gustandosele in buona compagnia.

Arrivederci, allora, al capitano Vinicio, abituè del Molo Audace che fu di Lelio, di Ponterosso e Pepi s’ciavo. Nella speranza di rivederlo presto, come promesso, alla riapertura del Round Midnight. Se ci sarà lui, Vic Damone o qualcun altro dei suoi pessoani interpreti, sarà irrilevante. Perché delle magie, anche se adespote, c’è un bisogno estremo e maledetto.

© 27 Dicembre 2011

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