La Voce di Trieste

7000 “gucciniani” accorrono a Villa Manin

di

Il concerto del Maestrone, due ore indimenticabili

Villa Manin è blindatissima come neanche a un concerto degli Iron Maiden. Body – guards e carabinieri dappertutto. Fuori, bancarelle uberrime di piadine e magliette vengono pacificamente prese d’assalto dai fans che cantano, bevono e paiono aver voglia di bestemmiare, mentre accorrono a sottoscrivere l’ultimo, vano referendum anti – porcata governativa. Sono settemila, i gucciniani accorsi sul prato della Villa: un autentico miracolo d’appartenenza e affetto per il Maestrone, il “burattinaio di parole” che più di ogni altro, forse, nella storia del cantautorato italiano, ha potuto contare sull’aprioristica fedeltà di vaste schiere di aficionados poco interessati alla sua definitiva involuzione artistica, palese da almeno tre lustri ma vicina alla conclusione, viste l’anagrafe (71 anni) e le ultime dichiarazioni da bandiera bianca («la chitarra non la imbraccio quasi più»).

 

Sette anni, infatti, sono passati dallultimo album di inediti del Guccio, Ritratti (mediocre, a volergli bene); mentre addirittura al 2000 risale Stagioni, l’ultimo disco  – quasi – degno delle sue straordinarie qualità di cantastorie immortale. Il miracolo assume tinte bibliche, se si pensa alle sue più recenti esternazioni mediatiche: le interviste (?) di Fabio Fazio; i camei negli ultimi capolavori di Pieraccioni; l’appoggio incondizionato, serafico, al presunto “meno peggio” incarnato dal Partito Democratico (il cui residuo barlume di intelligenza è in standby: Crozza è ancora in vacanza). D’altronde, se il suo intero percorso artistico (è del 1967 il primo LP, Folk Beat n.1) è da sempre improntato su di un’encomiabile, granitica refrattarietà alle sporche leggi del mercato musicale, Guccini non ha mai fatto mistero di essere un moderato, umanamente e politicamente (almeno dalla morte di Enrico Berlinguer). Schierato , ma mai troppo.

Lo si nota quando, ai cori furenti di “SE-DU-TI! SE-DU-TI! SE-DU-TI!”, esplosi da grosse fette di pubblico (educatamente a terra, come da Codice Deontologico del Vero Gucciniano) all’indirizzo di arroganti companeros inspiegabilmente in piedi a escludere loro il guardo del concerto, farfuglia di non poter fare nulla – laddove invece potrebbe -, mentre di sotto si sfiorano le risse; e lo si nota nella celeberrimatrasversalitàdella plebe incensante, democraticamente suddivisa in donne, anziani, trentenni, adolescenti e persino bambini, che pur ignorando (non solo i bimbi) chi sia Schopenhauer o cosa mai possano essere quei “ciuffi di parietaria attaccata ai muri”, potranno godere di due ore indimenticabili.

Guccini sale sul palco, per la prima volta a memoria d’uomo, con indosso i suoi nuovi occhiali («Sono bellissimi, vero?»), segno di un’età che avanza a un ritmo direttamente proporzionale alla sua misticità. Leggermente ingobbito, curvo sull’asta del microfono,  viene accerchiato dalle zanzare («Ci sono degli insetti mandati direttamente da Sallusti»). Scruta ammirato la Villa («Già all’epoca c’era gente che sapeva godersi la vita. Peccato noi fossimo sempre dall’altra parte»: tra la folla è già tripudio), dopodiché inizia la sua filippica contro il Premier (?) più ricattato di tutti i tempi, sciorinando sarcasmo da meraviglioso cabarettista qual è (ha scatenato più ilarità Guccini in cinque minuti che il team di Zelig in sedici edizioni). Scherza parecchio, Francesco, interagendo con gli amici di sempre, da sempre al suo fianco: “Flaco” Biondini, Ellade Bandini, Vince Tempera. Quelli che ha scelto di tenere con sé, un po’ per pigrizia e un po’ per il dolore all’idea di interrompere rapporti umani belli e fecondi; anche a costo di rinunciare, negli anni, a vesti più coraggiose per molte sue canzoni, spesso ottuse da arrangiamenti eufemisticamente dozzinali.

Come da tradizione decennale («Con questa canzone vi stupirò!»), il rito comincia con Canzone per unamica. Perle abbacinanti si susseguono, inframmezzate da aneddoti (il maiale di un piccolo circo Argentino finito ingloriosamente nei piatti degli acrobati) e scambi col pubblico («Abbiamo organizzato un concorso: il primo che chiede Lavvelenata vince una bambolina!»). C’è Lettera, fulgido omaggio agli amici andati, Bonvi e Victor Sogliani; ci sono Il frate, Amerigo, Autogrill. Scopriamo, tra l’altro, chi fosse Il pensionato (capolavoro, ma questo nuovo arrangiamento ne è sfregio empio e inaccettabile): il signor Mignani, calzolaio di piedi deformi al quale Guccini – pur avendo piedi “nobilissimi”, tiene a precisare – commissionò un paio di scarpe («Il più brutto paio di scarpe che abbia mai visto, ma erano di una comodità…»). C’è poi la dedica al suo migliore amico, Canzone per Piero, dove i 25 anni della versione originale divengono 61 («Per una maggiore adesione alla realtà: perdonatemi»). Con Farewell, il boato: e tu sei lì, magari con la tua compagna, che ti piacerebbe saper scrivere una cosa del genere, ma vorresti non dovergliela dedicare mai.

Per finire, un trittico sociale: Eskimo («Non era ancora di moda, lo pagai diecimila lire al mercato di Trieste»), Dio è morto, La locomotiva. Frammenti di una generazione che più delle altre ci aveva creduto e provato. Fallendo, com’era inevitabile. Parole che, pur filtrate da corde vocali intatte, non sono suadenti come un tempo, quando il sogno non era così rattrappito. Parole che comunque ci tengono , fino alla fine. Inchiodati, rapiti. Come dinnanzi a una splendida ierofania laica.

© 6 Settembre 2011

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