Ronchi: “Case Pater”, ad ogni elezione tutti hanno la loro soluzione definitiva
di adminwp
Ma le soluzioni variano fra loro solo per i metri cubi di cemento previsti.
Nel Monfalconese ogni forza politica ? fa eccezione qualche rara vox clamans in deserto ? continua a sbizzarrirsi sulla destinazione definitiva da dare alle ormai vetuste “Case Pater”, uno storico complesso di minialloggi costruito dal fascismo lungo la Strada Regionale 305 che da Ronchi dei Legionari porta a Redipuglia. Soffrono ormai di un pesante degrado materale, per non parlare della loro obsolescenza funzionale, che a causa delle numerose vicende, soprattutto legali, non ha permesso adeguamenti alle mutazioni del territorio dal dopoguerra ad oggi.
La tipologia degli edifici
Si tratta di una cinquantina di casette bifamiliari su un unico piano, a tetto spiovente, simili fra loro e tutte dotate di oltre 1.000 mq di terreno di pertinenza, per lo più usato ad orto/giardino. Per un totale quindi di circa 100 unità familiari su circa 100 mq. abitabili e prive in origine di portico, terrazzi, box, soffitte e cantine (non hanno nemmeno le fondamenta). I locatari hanno provveduto perciò ad aggiungere poi senza autorizzazioni tutta una serie di manufatti accessori più o meno precari (ed abusivi) che va dai box in lamiera alle verande in alluminio, per arrivare a tettoie o addirittura ampliamenti in muratura degli spazi d’abitazione.
Lo stato di conservazione degli edifici è disomogeneo anche perché una ventina di essi è sfitta da molti anni, e quindi in decadimento da incuria più accelerato.
Le Case Pater, inoltre, si chiamano così perché si devono all’opera dell’ingegnere Dario Pater, un pioniere dell’industria delle case prefabbricate al quale si deve l’introduzione in tutta Italia delle costruzioni in populit, pannelli in fibra di legno intonacata, non infiammabili e ben isolanti ed insonorizzanti, usati come muri perimetrali delle case.
Questo gruppo di edifici è quindi anche una realtà abitativa ‘archeologica’, che dovrebbe essere almeno in parte conservata come tale, e perché rappresenta un pezzo di storia della città di Ronchi e dell’edilizia popolare in genere. E tra alcuni svantaggi hanno anche il raro pregio della dimensione umana dell’abitare.
Un po’ di storia
L’aeroporto di Ronchi dei Legionari nasce nel 1935 come base militare di supporto agli aerei di stanza a Gorizia, divenendo palestra di formazione per pattuglie acrobatiche e supporto all’industria aeronautica italiana.
Nel 1940 la Prefettura di Trieste autorizza il Comune di Ronchi ad occupare d’ urgenza i terreni privati adiacenti, con contributo statale di 2000 lire per acquisti anche in esproprio, per costruirvi un villaggio di circa 120 “case minime” per assegnataroi disagiati dell’Istituto Autonomo Fascista delle Case Popolari, che affida l’appalto alla ditta Pater. Ma allo scoppio della seconda guerra mondiale, le case vengono invece destinate all’aeronautica militare per sistemarvi sottufficiali ed avieri di stanza all’aeroporto.
Intanto il Comune di Ronchi non riesce a perfezionare le procedure di esproprio entro i termini della dell’occupazione d’urgenza delle aree, che diviene perciò illegittima benché sia conclusa l’edificazione delle 56 case in progetto. Ed alla fine della guerra, sgombrati gli avieri, i cittadini bisognosi di Ronchi passano all’occupazione popolare di fatto delle case.
Inizia così una vicenda urbanistica e proprietaria paradossale tuttora non conclusa. Nel dopoguerra la gestione immobiliare passa prima all’Istituto Autonomo per le Case Popolari di Trieste e poi, negli anni sessanta, a quello di Gorizia, mentre gli ex proprietari dei fondi espropriati continuano a reclamarne anche in giudizio la restituzione od il risarcimento in denaro dei danni da parte del proprietario subentrato, il Comune. Riassumendo, abbiamo dunque in campo ab origine una proprietà illegittima, inquilini abusivi ed una successione di tre gestori diversi.
Il conseguente contenzioso giudiziario, consolidato nel 1964 è durato oltre vent’anni, sino ad una discussa sentenza di Cassazione che il 3.12.1984 vi ha applicato il principio dell’ accessione invertita: la realizzazione di un’opera pubblica comporta di per sé il trasferimento della proprietà dai privati all’Ente pubblico che la realizza; i proprietari così definitivamente spogliati del bene hanno quindi al solo risarcimento secondo i valori di mercato.
Ma siccome in questo caso la spoliazione derivava da fatto illecito (l’occupazione comunale non perfezionata oltre la scadenza dell’autorizzazione), la Corte ha considerato il diritto al risarcimento esaurito in 5 anni anziché nei 20 dell’usucapione.
Ne è conseguita l’intavolazione al Comune di Ronchi del diritto di proprietà di tutti i fondi (GT 2858/1992 e GT 409/1994), ed all’Istituto Autonomo per le Case Popolari di Gorizia (ora ATER Gorizia) del diritto di superficie perpetuo, che dà la possibilità di edificare e mantenere una costruzione su un fondo di proprietà altrui. Ed a tuttì’oggi il Comune di Ronchi non è riuscito a svincolare la proprietà da questo diritto.
Nel frattempo, a partire dal 1992 ogni giunta comunale ha presentato un proprio piano di risanamento dell’area, a cui di volta in volta si sono opposti i comitati spontanei dei cittadini, ed gruppi consiliari d’opposizione alle amministrazioni di sinistra e di centrodestra che si sono succedute.
Ma tutti questi piano hanno come minimo comune denominatore due criteri. Il primo è la sottrazione di parti di verde sempre più ampie, a favore di rotatorie, nuovi assi viarii, sottopassi pedonali e persino parcheggi sotterranei, oltre a fori commerciali destinati a restare sicuramente vuoti. Ed il secondo è l’introduzione di tipologie abitative con cubature ogni volta superiori a quelle piano precedente. Col paradosso di opposizioni che contestavano le cubature dell’amministrazione in carica per poi aumentarle loro una volta andate al potere.
La domanda è anche: chi paga tutti questi progetti? La risposta che viene data è: “i privati”. Salvo poi accorgersi che, una volta che i “privati” hanno costruito le palazzine, venduto gli alloggi e salutato tutti, è il Comune che rimane tenuto a fornire i servizi essenziali (acqua, gas, fognature, luce e servizi sociali primari come i centri civici, gli asili e le scuole), a spese non di quei privati ma dei contribuenti, cioè della collettività.
Nei diversi progetti abbiamo inoltre trovato assurdità come:
-la realizzazione di una rotatoria (al posto di via Matteotti) che avrebbe interrato e reso completamente inaccessibili le tubature di gas, acqua e fognature, per poi dover sfasciare la rotatoria stessa ad ogni intervento di manutenzione;
– la costruzione di 10 alloggi su terreno che utilizzato come allevamento di fagiani, per assicurare a rotazione l’alloggio a tutti gli inquilini interessati alla riqualificazione;
– la realizzazione di un asilo nuovo, mentre c’é a pochi passi (in via Soleschiano) un ex-asilo ripristinabile con spesa molto minore;
L’unico intervento concreto è stata sinora la vendita di una piccola porzione di terreno dal Comune all’ATER, come stabilito in un loro accordo di programma del 2004, per realizzare una palazzina da 10 appartamenti. Che sembra fuori da strategìe reali ed utile solo a “fare cassa”. E nell’accordo era previsto che l’ATER provvedesse a sua cura e spese all’ennesima variante al PRPC per il recupero del quartiere “nel rispetto delle moderne tecniche di bioedilizia ed eco-sostenibilità, (..) fonti energetiche alternative e/o rinnovabili, cicli di raccolta del rifiuto e recupero acque in linea con le più recenti esperienze nazionali ed internazionali”.
Mentre dai verbali consiglio comunale del 30/7/2004, in sede di discussione dello stesso accordo, apprendiamo (intervento cons. Luigi Bon) che “c’è una buona qualità di vita in quel quartiere a parte i tetti in amianto”.
Ed alla fine tutti i piani vengono respinti o sospesi, o manca il dialogo con la controparte ATER, o semplicemente non esistono i fondi pubblici per risanamenti di quella portata. E’ del 2009 ad esempio la bocciatura regionale della richiesta di finanziamento del piano di riqualificazione redatto assieme da Comune e ATER Gorizia, nel quale inolte le casette a dimensione umana sarebbero state sostituite da tre alienanti palazzi-casermone.
Perché edificare, edificare ed ancora edificare?
È chiaro che le Case Pater non possono rimanere nelle condizioni in cui sono. Ma allora radiamo tutto al suolo per tirare su anonime palazzine, case a schiera, o villette? Se ne discute ormai da vent’anni, e non solo fra le forze politiche e sociali locali, perché sono in ballo interessi anche da più lontano. Ma visto l’incremento continuo dell’edificazione sul territorio da una ventina d’anni ci chiediamo francamente se non sia, oltre che dannoso, anche anacronistico cementificare anche quest’area di 103.000 mq.
Tanto che persino l’Agenzia del Territorio nella “Relazione di stima del compendio immobiliare denominato Case Pater” commissionatale nel 2010 dallo stesso Comune di Ronchi suggerisce al punto “Analisi ed indagini di mercato” che “oramai pare esaurita la spinta propulsiva degli anni passati” nel mercato immobiliare, e rileva la “difficoltà di assorbimento del mercato di una mole così elevata di pezzi, in particolare in una fase come l’attuale di stagnazione del mercato e di leggera flessione anche dei prezzi” ed infine che “il mercato sia alla fine del ciclo immobiliare, (..) con un mercato in arretramento, (..) fase dalla durata che si prevede sufficientemente lunga e dai risvolti atipici”.
Ronchi ha già sfitti almeno il 5% delle case, e ve ne sono egualmente altre in costruzione in base all’ultimo Piano Regolatore. E su Ronchi gravano anche i pesanti vincoli edilizi del Piano di Rischio che recepisce le regolamentazioni dell’ENAC (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile), imposto a tutte le città dotate di aeroporto, incidendo anche sulla regolazione dello sviluppo delle costruzioni.
La sicurezza di volo impone infatti alle aree limitrofe agli aeroporti vincoli plano-altimetrici per edifici, alberi e rilievi del terreno che potrebbero essere d’ostacolo. Una prima fascia attorno all’aeroporto rimane inedificabile, una seconda, concentrica, lo è solo per il 12%, e l’ENAC sta facendo pressioni per aumentare gli spazi non edificabili.
Ronchi è, insomma, già intasata da un’edificazione incessante, e sarebbe il momento di concentrarsi solo sulle ristrutturazioni del patrimonio edilizio esistente senza più permettere che ogni amministrazione comunale ponga attenzione solo al tornaconto economico di breve termine.
E dovrebbero almento dire chiaramente cosa vogliono che Ronchi diventi: se tutto ciò fa pensare che ormai è superfluo innalzare anche solo un muretto, perché continuano invece a sfornare progetti?
Un sospetto ovvio è che pensino di sovraccaricare la città di case per impinguare le casse del Comune con gli oneri di edificazione del nuovo (secondo la legge “Bucalossi” n.10/1977) e con le sovvenzioni anche pluriennali per realizzarne i servizi accessori. Un Comune già non troppo virtuoso che si vede tagliare di colpo dal Governo le entrate dell’ICI, tenta di ricorrere ad altri sistemi per finanziarsi. C’è chi salassa i cittadini con le multe per divieto di sosta od altro, e chi forse ricorre invece a quest’altro genere di finanziamenti.
Abbiamo chiesto un parere ad uno dei più strenui (e storici) oppositori dei “piani Pater”, Umberto Miniussi, già assessore comunale.
Dove sta veramente il nocciolo del problema?
“Il fatto è che tutto si è sempre insabbiato ai primi ‘No’ dei comitati, spesso sostenuti dalla sinistra massimalista, che purtroppo più volte si è dimostrata poco interessata al miglioramento urbano della città e al giusto decoro dei residenti nelle abitazioni dell’ATER di via Redipuglia e Matteotti”.
Dopo vent’anni di progetti irrealizzati, è forse ora di cambiare strategia almeno per le case Pater?
“Ormai abbiamo capito che non sono sufficienti nè il proprietario dell’area, cioè il Comune, nè il proprietario delle abitazioni, l’ATER. Un progetto di questa portata, per gli interessi che fa nascere, deve essere co-partecipato dalla Regione e dallo Stato, suo antico proprietario ed edificatore. E’ quindi prioritario innanzitutto svincolare l’area dall’accordo con l’ATER, che ormai è controllata da amministratori che non mostrano interesse ai problemi abitativi e di risanamento di molti degli edifici che controllano, e soprattutto non hanno mai presentato un concreto piano pluriennale di interventi straordinari di manutenzione nel Comune di Ronchi”.
Allora che fare?
Abbiamo quindi interpellato in merito l’architetto Maurizio Volpato ? che si batte da anni in prima linea per porre un limite cementificazione ? su quali potrebbero essere le soluzioni alternative per il comprensorio delle Case Pater.
“A mio avviso, ormai a Ronchi non c’è più bisogno di edificare ulteriormente, soprattutto all’interno degli abitati. Credo inoltre che aree simili, poste all’interno della conurbazione esistente, siano molto rare e vadano perciò assolutamente salvaguardate “.
Tutti i progetti fin qui visti però parlano solo di cemento…
“E’ vero, e non va dimenticato che tutta la città di Ronchi è già cresciuta senza badare minimamente alla salvaguardia del verde urbano. Non abbiamo giardini pubblici e tantomeno parchi urbani. Se guardiamo alle città storiche europee, vediamo che sono piene di spazi verdi, adeguatamente progettati, finanziati e gestiti. Il verde costa farlo e mantenerlo, ma credo che questa sia una delle sfide urbanistiche del prossimo futuro, perchè solo il verde può compensare in qualche modo le tante brutture sorte negli ultimi decenni qui a Ronchi”.
Qual è allora secondo Lei il taglio da dare ad un recupero efficace delle Case Pater?
“La Regione, se proprio deve sovvenzionare un ‘Piano Pater’, dovrebbe finanziare l’abbattimento delle strutture presenti ormai fatiscenti, lasciando in piedi un paio degli attuali edifici come valore storico, ad esempio per un Centro Sociale, e per ‘memoria archeologica’ di com’era il complesso prima della demolizione. Ciò però solo dopo la presentazione di un piano progettuale generale e particolareggiato, che indichi tutte le infrastrutture occorrenti all’area e preveda l’individuazione di collocazioni sostitutive per gli attuali residenti”.
E la parte rimanente dei 103.000 metri quadrati?
“Dev’essere destinata a verde pubblico, possibilmente inquadrata in una sorta di parco multicomunale che diventi un Parco del Mandamento monfalconese. Credo infatti che in una visione più ampia quel contesto potrebbe trovare una valenza non limitata alla sola Ronchi, ed ospitare, immerse nel verde, anche attrezzature e servizi di rilievo mandamentale. L’occasione per fare qualcosa di veramente utile alla città (e non solo) col recupero di quest’area è davvero di quelle irripetibili, e non va assolutamente sprecata.”
© 21 Aprile 2011