La Voce di Trieste

In viaggio da Trieste a Milano

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Tra posti occupati e personaggi originali

7.04 intercity per Roma, ma io scendo a Mestre e vado a Milano. A quest’ora della mattina uno si aspetta di trovare silenzio, invece c’è sempre qualcuno che ha voglia di alzare la voce, disturbando così chi tenta di dormire, con scarso successo. Avevo il posto prenotato, ma era stranamente occupato: ­­perché la gente non si siete nel posto giusto? L’usurpatore del posto, vedendo che cercavo il mio numero e capendo d’essere un abusivo, mi sorride e magna cum banditia mi risponde: “Anche il mio era occupato, non le dispiace no?” E cosa dovevo rispondere? Razza di caprone, ma se poi alla prossima fermata sale qualcuno che vuole il mio di posto che faccio? Ma non dico nulla di tutto ciò e mi siedo nel primo posto libero, pensando: ”Male che vada, se fanno sloggiare me, io faccio sloggiare lui”. Adesso stanno iniziando a salire le prime persone e sono un po’ preoccupata. Ovviamente una signora vorrebbe il mio posto. Io le rispondo che abbiamo tutti i posti prenotati ma che ci siamo disposti in modo del tutto casuale e se vuole, per effetto domino ci spostiamo. La signora, educatamente risponde che non serve e si siede altrove. Bene, ma mancano diverse fermate a Mestre. La signora che sale subito dopo non può passare inosservata: jeans superattillati con sedere spropositato, capello biondo tinto, unghie perfettamente smaltate rosso fuoco, alla Crudelia De Mon, fondotinta spalmato a quintali, occhialone stroboscopico, leggero accenno di doppio mento; in una parola non più giovanissima ma con un’ “anda” volutamente giovanile. Ma quello che colpisce di più è il suo voluminoso trolley che ha piazzato in mezzo al corridoio, dando grande prova di inciviltà. Ma dico io: che bisogno c’è di ingombrare il passaggio? Che ci sia del materiale prezioso depositato all’interno, motivo per cui la signora non si può separare dal voluminoso bagaglio? Mistero!

Forse io sono un caso anomalo, ma quando parto prendo sempre poche cose: essenziali le scarpe da ginnastica per andare a correre, ma il resto è optional, anche perché sono dell’idea che quello che manca si può sempre comperare. Ben inteso, non è che non porto nulla, ma non viaggio sicuramente con chili di bagaglio a mano.

E arriva la tanto temuta richiesta di posto. A quel punto costringo tutti gli abusivi ad alzarsi e prendo possesso del posto a me assegnato. Capito vicino ad un signore dalla faccia simpatica che, pur avendo un libro in mano, sembra abbia più voglia di conversare che di leggere. Così invece di trincerarmi nel mio solito mutismo, mi lascio andare e do il là. Il tipo, che forse non aspettava altro, inizia amabilmente a conversare. Nel breve tragitto Latisana-Mestre mi racconta del suo viaggio a Roma, in bici, durato una settimana e mi suggerisce anche alcuni posti insoliti da visitare nella capitale. Ha con sé anche una piantina della Spagna, perché quest’estate ha in mente un viaggio, in moto però, nel sud di questo straordinario paese.

“Mia moglie non vuole più venire con me, a causa dei bambini, che sono ancora troppo piccoli per mettersi in viaggio, così sono costretto ad andare da solo, perché per me viaggiare è fondamentale, è come l’ossigeno, come l’acqua, qualcosa a cui non posso rinunciare”. Sarei rimasta volentieri ancora a chiacchierare con lui, perché la conversazione era davvero piacevole e stimolante, ma ero arrivata a Mestre e il cambio era imminente. Mi saluta, non senza avermi prima ricordato d’andare a visitare a Roma, il museo di non mi ricordo cosa. Magari prima o poi ci potrei anche andare, ammesso che mi sovvenga il nome.

A Mestre prendo l’intercity delle 9.10. Per fortuna, anche qui ho il posto prenotato. I miei vicini di seggiolino però non sono il massimo. Vado con ordine: ciccione occhialuto di fronte a me, con camicia e cravatta perfetti, come appena usciti da una tintoria. Perfettamente sbarbato. Unica nota stonata gli occhiali: un po’ fuori moda. Sposato. A fianco: altra giacca e cravatta, con leggera prominenza all’addome, della serie “voglio ma non posso”, collana al collo e pataccone al dito. Un uomo dalle velleità culturali, visto che ha seco diversi giornali, che peraltro ha solo sfogliato, visto che già alla prima fermata, quella di Padova, già dormiva.

La mia vista viene risucchiata dal paesaggio che danza fuori dal finestrino. Chilometri di terreno arato, vigneti e frutteti che si snodano come disciplinati soldatini e a fare da sfondo, in lontananza le colline, immobili guardiani di questa landa brulicante di vita. Non ho finito con la descrizione dei miei compagni di viaggio, perché mancano i due pezzi forti: giovanotto brufoloso con faccia sorridente e a fianco a me, rompiscatole con auricolari che continua a tamburellare insistentemente, ascoltando musica a palla: gli puzza l’alito e tiene rigorosamente il gomito sull’unico bracciolo disponibile. Un vero cafone.

Ma il vero tormento è quello seduto dietro a me, che io non riesco a vedere, ma che percepisco chiaramente e che non ha smesso un minuto di parlare al telefono da quando siamo saliti in treno. Voce monotona e al limite anche un po’ fastidiosa. Si vede che ho dormito poco. Dovrei anche andare in bagno, solo che per farlo dovrei scavalcare almeno due persone: spero solo che scendano prima di  me, ma non so se ce la farò a trattenere la pipì fino alle 11.25, data di arrivo prevista a Milano. La fiatella del vicino è veramente insopportabile, forse dovrei offrirgli delle gomme.

All’arrivo a Verona, il paesaggio cambia radicalmente e le campagne lasciano il posto a casa, condomini, casermoni, macchine, strade, fabbriche, corsi d’acqua, distributori di benzina, civiltà.

Il ciccione, camicia-perfetta, scende a Verona Porta Nuova, così pure la fiatella. E vai, resta solo il catena al collo e il giovanotto brufoloso, oltre che il logorroico che continua imperterrito a telefonare. Colpo di scena: il posto del ciccione viene occupato da una ragazza carina che non aspetta nemmeno che il treno sia partito e apre voracemente una cartellina con dei fogli contenente un atto di compra-vendita. Però adesso che il fiatelloso, è sceso, potrò andare in bagno senza passare sopra la testa di nessuno.

Tra la lettura di un libro e un sonnellino, arrivo a Milano.

Era tanto che non ci mettevo piede e la giornata è a dir poco equatoriale: vedo gente in maglietta, shorts e alcuni sono praticamente nudi. Il convegno inizia alle 14.30, con il saluto delle autorità e sono appena le 11.30. Non posso andare in albergo: piazza Duomo, via Dante e il castello Sforzesco sono d’obbligo. Prendo la metro, la linea gialla: dalla stazione centrale sono solo due stazioni. Quando arrivo alla fermata, seguo la folla, non posso sbagliare. Ma mi correggo, non è una folla, piuttosto una marea fluttuante che travolge per odori, colori, suoni. Impressionante. Davvero.

E mi siedo, su un marciapiede, vicino a delle turiste americane che, incuranti del caldo e della sporcizia, inevitabili in una città così grande, si distendono sul cemento, mangiano e camminano a piedi nudi. Tiro fuori anch’io dalla mia borsa un panino. Mi incanto a guardare la gente: ce n’è di tutti i tipi: giovani, vecchi, in bici, a piedi, di tutte le nazionalità, un miscuglio quanto mai eterogeneo e cangiante. Potrei starmene qui per delle ore. È un brulicare di persone sprizzante di vita, che al solo vederle vien voglia di mettersi in modo, nonostante il caldo, nonostante la stanchezza. E malgrado la mia estraneità, mi sento parte di questa bella famiglia di cui percepisco l’abbraccio. E mentre mi sto alzando, il signore che era seduto vicino a me, sorridendo mi dice: “Buona giornata e buona permanenza a Milano”. Lo guardo anch’io e gli sorrido. Sarà sicuramente una buona permanenza.

 

© 14 Aprile 2011

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