La Voce di Trieste

Fratelli d’arte

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“Nessun artista ha intenti morali. In un artista un intento morale è un imperdonabile manierismo stilistico” Oscar Wilde  (1854- 1900)

Di solito si parla di “figli d’arte” quando un discendente diretto raccoglie, in preziosa staffetta, l’eredità culturale del genitore e ne prosegue l’attività produttiva.

Oltre le parentele di sangue, pare esistano “fratellanze”, bizzarre unioni e combinazioni di pensieri, opere, destini, che sfidando tempo e spazio si affiancano in suggestivi parallelismi.

Plutarco di Cheronea (46-127) mise a confronto ventitré coppie (una è andata smarrita) di personaggi storici, un greco e un romano, cercando di cogliere il seducente collegamento, per affinità o diversità, esistente fra le loro Vite parallele (Oscar Mondadori – Milano –1981).

L’ispirazione dello scrittore ellenico, di comparare tratti di carattere, sentimenti e comportamenti, simili o eterogenei, è un gioco affascinante, quasi un cruciverba in cui qualche lettera verticale lega due parole orizzontali. Coincidenze potremmo dire, se non fosse che il genio umano misteriosamente si ripropone nei sogni, nelle invenzioni, nelle idee senza tenere conto di successioni cronologiche e continuità spaziali.

Propongo il medesimo intrattenimento con un occhio all’essenza che li accomuna, la cifra che annoda e mette in relazione un tratto di cammino, di estetica anticonformista, di visione onirica.

Il cammino intrecciato

Marco Polo (1254-1324), veneziano, cristiano, a 17 anni accompagna il padre Niccolò e lo zio Maffeo in un viaggio, durato ventiquattro anni, da Venezia a Pechino e ritorno. Il libro delle sue avventure (Livre des merveilles), trascritte in francese dal pisano Rustichello, sarà conosciuto, più tardi, col nome di Milione. All’andata, la piccola carovana tocca Acri, Bagdad, Ormuz, per poi risalire seguendo la “Via della Seta” fino a Pechino; il rientro, a partire da Hangzhou (Cina orientale), avviene per via mare alla volta di Ormuz, e poi Trebisonda, Costantinopoli, Venezia.

Nel 1325, un anno dopo la morte di Marco Polo, un altro esploratore, Ibn Battuta (1325-1354), marocchino di Tangeri, musulmano, intraprende un viaggio analogo che lo porterà a Pechino. I due itinerari, in Medio Oriente ed Asia, si sovrappongono e incrociano in molti punti; probabilmente solo una schisi temporale ha reso inattuabile un possibile incontro. Alla luce dei loro diari, non si può dire quanto si sarebbero compresi il cristiano, che guardava con meraviglia e sufficienza gli infedeli, e il musulmano, che osservava col altrettanto stupore e diffidenza i medesimi infedeli; entrambi erano però profondamente consapevoli dell’impareggiabile utilità di conoscere e riferire usanze sconosciute, stimate patrimonio ricchissimo; ambedue bramavano, pur rimanendo fermi nelle loro convinzioni, aprire nuovi sipari.

L’altra estetica

Il cinema, definito la settima arte, ha permesso a Pier Paolo Pasolini (1922-1975), scrittore, poeta e regista, di presentare visivamente i personaggi delle sue storie. Popolani dai tratti arcati,grossolani, trasudanti sensualità e voluttà primitive, in balia di istinti primordiali e mai addomesticate contingenze esistenziali quali la fame, il dolore, le passioni, la promiscuità sessuale, vissute in modo drammaticamente ingenuo, quasi animalesco, coreografie classiche in contrasto con il fraudolento genere  “peplum”, sono gli stilemi utilizzati da Pasolini per ricordare alla collettività benpensante i propri recessi  intenzionalmente ignorati.

Nature sotterranee, che ogni società “perbene” tenta di ignorare e possibilmente nascondere, risalgono in superficie e, raccolte dalle mani dell’artista, sfidano provocatoriamente, il senso del buon costume, ricordando agli irreprensibili cittadini i “rifiuti” accantonati delle loro cantine.

Quasi quattro secoli prima, Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610), applicava alla sua arte identica lettura.  La prima versione  del dipinto S.Matteo e l’Angelo (1602), commissionata per la Cappella di S.Luigi dei Francesi, venne rifiutata dalla congregazione religiosa; la figura del santo non corrispondeva ai loro ideali: eccessivamente volgare, con le gambe scoperte, i piedi rozzi, senza aureola e sospettosamente analfabeta.

Stessa sorte toccò a la Morte della Vergine (1604) troppo distante dall’iconografia tradizionale: aspetto per nulla mistico, plebeo, volto terreo, caviglie in mostra, rinforzavano la voce propagata che la modella fosse una prostituta annegata nel Tevere.

I due artisti, il Pasolini caravaggesco e il Caravaggio pasoliniano,  troveranno la morte vicino al mare, metafora di anime controverse, violente, burrascose, controtendenza e, forse proprio per questo motivo, capaci di afferrare quel senso estetico della vita, presente anche nel suo lato più negletto.

La visione irreale

Jorge Luis Borges (1899-1986), nativo di Buenos Aires, scrittore e poeta, gran frequentatore di filosofi greci, riprende l’antica questione dell’inganno sensoriale avanzata dalla scuola eleatica e la propone come unica, vera realtà. In effetti non esiste una realtà immutabile ma semplicemente un suo riflesso illusorio, ingannevole al pari dei labirinti, degli specchi, del doppio, dei sogni.

Ne “L’immortale” (L’Aleph – Feltrinelli – Milano 1977) scrive: “Nel palazzo che imperfettamente esplorai, l’architettura mancava di ogni fine. Abbondavano il corridoio senza sbocco, l’alta finestra irraggiungibile, la vistosa porta che s’apriva su una cella o su un pozzo, le incredibili scale rovesciate, coi gradini e la balaustra all’ingiù”.

Il compendio sull’armonico e funzionale modo di costruire redatto da Marco Vitruvio Pollione, si scompone nella mente dell’intellettuale argentino; pilastri, porte, archi, finestre, scale, abbandonano ubicazione e funzione per addossarsi irrazionalmente l’uno all’altro. Lo smembramento materico ricrea, in paesaggi desertificati, ambienti inospitali dove l’uomo rischia di smarrire la ragione, la soggettiva certezza logica già messa in difficoltà dalle paradossali frecce e tartarughe di Zenone.

Che la verità sensoriale, facilmente ingannabile, sia semplicemente un’opinione, lo dimostra con i propri disegni il grafico olandese Maurits Cornelis Escher (1898- 1972). In stupefacente, sconcertante sintonia con Borges –  avrebbe potuto illustrare i suoi racconti – affida alla matita i medesimi temi surreali basati sulla distorsione percettiva e prospettica.

L’effetto Droste  in immagini ricorsive, il moto perpetuo del Su e giù (1947)  o della Cascata (1961) che rifornisce sé stessa, l’infinito dei Cerchi limite I,II,III, IV, inattuabili, fittizie composizioni  (Sriscia di Moebius 1963), alternanze dimensionali e metamorfosi in Rettili (1943), geometrie stravolte (Colonne doriche 1945), specchi che rinviano ad altri soggetti nella Natura morta con specchio riflettente (1934), sono alcuni elementi adottati da Escher per descrivere un mondo matematico, ordinato e al contempo assurdo.

Il messaggio condiviso e condivisibile dei due visionari sembra essere: se la matematica e la geometria, reputate scienze esatte, sono in grado di servire un’illusione, perché un’illusione non può divenire razionale?

 

 

Foto 1: M. Cornelis Escher Relatività 1953

Foto 2: Mappa dei viaggi di Marco Polo e Ibn Battuta

Foto 3: Pier Paolo Pasolini fotogramma dal film Accattone 1961

Foto 4: Michelangelo Merisi da Caravaggio Bacchino Malato 1593-1594

© 5 Aprile 2011

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