La Voce di Trieste

Se una notte d’inverno una pianista…

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Fuori anche la luna accosta l’orecchio. C’è chi dice che è da 19 anni che non era così vicina. Chi tenta di dare una spiegazione scientifica all’evento lo chiama “perigeo”. Qualcuno si è semplicemente lasciato cullare da quella dolce e inusuale visione, accompagnato dal concerto di Mariangela Vacatello, che sabato 19 marzo si è esibita all’interno del “festival pianistico internazionale”, al teatro Miela.

Si inizia con Chopin: Andante spianato e Grande Polacca brillante. Uno sfarfallio di note, messo subito in risalto dal tocco delicato ed esperto dell’interprete, colpisce l’ascoltatore e lo trasporta fuori dalla sala: «è come se vi si aprisse davanti un giardino popolato di esseri che passeggiano in silenzio fra zampilli d’acqua e altri volatili», descrive Mendelssohn il pezzo che ha udito suonare dalle mani dello stesso Chopin. Una progressione sistematica di saliscendi, in cui le diverse sfumature, in una scrittura così aperta all’interpretazione, vengono rese con grande espressività: la mano destra guizza, la sinistra è subito dietro ad appoggiarla. Siamo nel mondo dello sfiorato, del sussurro, della fuga segreta. Le ultime note, martellanti, danno il ritmo all’applauso, dirompente. «Cannoni sepolti sotto ai fiori», le definisce Schumann. Cannoni impossibili da rintracciare scritti, sul leggio: suonata a memoria, la musica risulta interiorizzata, l’esecuzione passa attraverso la propria individualità che le dà corpo e sostanza. Lo spartito richiamerebbe all’ordine; ma un autore come Chopin è bene suonarlo così, in un’esecuzione mai uguale a se stessa, come mai una persona è uguale a sé presa in momenti diversi.

Dal romanticismo più genuino all’impressionismo di gusto decadente di Debussy: lo Studio per le 5 dita, che inizia con una semplice scala di Do, interrotta subito da singole note che portano alla de-strutturazione della scala, di ogni scala (sorte analoga tocca infatti a quella di Sol, qualche battuta dopo). In un ‘900 dove ogni punto di riferimento è mobile, evanescente, pronto a dissolversi, è il ritmo – anch’esso frantumato – ad affermarsi. Seguono, sulla stessa linea, gli studî per le seste, per le 8 dita e per le ottave, che mostrano quanto sia profonda l’empatia dell’interprete con la poetica musicale del compositore francese. Le corde del pianoforte – percosse dai martelletti – entrano tutte in vibrazione, e per risonanza toccano e mettono in moto quelle dell’inconscio dell’individuo, dando vita a visioni oniriche dove gli arpeggi si trasformano in scene di lotta e urla nere. Per cercare l’uscita da questo dedalo di suoni, dove le melodie sembrano non avere inizio né fine, dobbiamo aspettare L’isle joyeuse, che solo nelle battute conclusive mostra la via di fuga, in un balzo, finito il quale l’ascoltatore più attento comincia ad applaudire e ad urlare “brava!” estasiato.

È la fine della prima parte. Molti chiacchierano con vecchie o nuove conoscenze, ma qualcuno fissa ancora in direzione del pianoforte, quasi che il suono possa riprendere, da un momento all’altro, in virtù della volontà spontanea dello strumento.

Alla ripresa del concerto è la volta degli studî trascendentali di Franz Liszt: si inizia dall’ultimo, dalla tormenta di neve, dove “il vento spingeva in alto verso il cielo grigie nubi di volteggianti fiocchi di neve che tornavano sulla terra in bianchi turbinî, s’ingolfavano nel fondo cupo della strada, e la ricoprivano d’un candido velo” (Borìs Pasternàk, il Dottor Zivago).

Seguono i fuochi fatui, richiamati dai guizzanti arpeggi di scale cromatiche, che subito prendono corpo ma alla fine del brano sono già dissolti, nel tintinnare di passaggi virtuosi.

Ecco la Mazeppa: la lunga, tragica e appassionata cavalcata del condottiero, legato al dorso del suo destriero, pare rivivere; e sembra di sentire la voce di Listz, alla fine dell’esecuzione, citare gli ultimi versi dell’omonimo poema di Victor Hugo da cui lo studio è ispirato: “infine arriva il termine… lui corre, vola, cade, e si rialza re!”.

Un’ombra crepuscolare, passato da poco il placido meriggio, si alza dall’armonia della sera: “ecco venire il tempo che vibrando sullo stelo ogni fiore svapora come un incensiere; i suoni e i profumi volteggiano nell’aria della sera; valzer malinconico e languida vertigine”; ancora dei versi, stavolta ispirati essi stessi dallo studio, di Charles Baudelaire.

Infine l’appassionata, il cui vento di tempesta trascina la mente ancora annebbiata dalla visione (ascolto?) di quel “cielo triste e bello come un grande altare” (ancora il poeta maledetto). Il pubblico non aspetta che la pianista sollevi il piede dal pedale per iniziare l’applauso, che si crede essere quello conclusivo.

Si crede, ma non è; ché sono tre i bis concessi: di Chopin la Polonaise n. 6 ed il Valzer op. 69 n. 1, di Debussy, i Giardini sotto la pioggia, che concludono con un’ultima vivida immagine musicale la serata. L’acqua scende “dalle nuvole sparse”, ora “più rada” ora “men rada”, non rimane che l’ascolto: “piove su le tamerici salmastre ed arse, piove sui pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti, piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggeri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione” (Gabriele d’Annunzio, La pioggia nel pineto).

Parole che si trasformano in musica, melodie che diventano racconto. Domandarsi cosa vuol dire “ascoltare una musica per il solo piacere d’entrare nel disegno delle note” (Italo Calvino, Sotto il sole giaguaro).

 

In foto: Mariangela Vacatello

Quadri di: Monet (“Treno nella neve” 1875, olio su tela; “Giardino a Giverny” 1900, olio su tela)

© 28 Marzo 2011

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