La Voce di Trieste

“Primo amore” al Teatro Miela

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L’opera di Beckett in programma venerdì 18 marzo

Venerdì 18 marzo, alle ore 21.00, presso il Teatro Miela, Bonawentura presenta, per la rassegna Tra carceri e carceri, Primo amore, di Samuel Beckett con con Paolo Graziosi, regia Paolo Graziosi, assistente alla regia Elisabetta Arosio

Ingresso  € 15,00, ridotti (under 18 e over 65) € 12,00, prevendita: www.vivaticket.it

“Nel 1945, quando scrisse Premier Amour, Beckett ha 39 anni. Vive in Francia da diverso tempo. Ha degli amici, soprattutto irlandesi, una compagna, con la quale dividerà tutta la vita, una piccola rendita, ogni tipo di malessere, un’inesorabile passione per il whisky, e una notevole assenza di notorietà. Cosa abbastanza normale del resto, dato che non ha ancora scritto quasi nulla: a parte Murphy, una specie di romanzo scritto in inglese, piuttosto sorprendente ma che stranamente i lettori non fanno a botte per leggere. Qualche anno dopo, finalmente arriva Godot e lo rende celebre. Diventa rapidamente l’oggetto di tesi e di glosse. Lo si trova vertiginoso, metafisico, di una indicibile profondità. Suscita quel rispetto proprio dei classici e che lo accosta sotto sotto alla noia. È diventato un monumento alla cultura con visita obbligata. È il momento ideale per dimenticare tutto ciò che si sa, che si crede di sapere, e riascoltarlo con innocenza. Ritrovare lo stupore. Come per la prima volta. Premier Amour non è una piéce di teatro, ma una breve novella, scritta direttamente in francese, dove un uomo racconta, minuziosamente, le sue prime emozioni; ma non esattamente con il registro sentimentale a cui il tema potrebbe far pensare. La storia stessa, piuttosto stravagante, si può riassumere rapidamente: scacciato alla morte del padre dalla casa dell’infanzia, il narratore incontra dopo un periodo di vagabondaggio, una donna che finirà per proporgli un alloggio. Ha il sospetto di esserne innamorato anche se il suo comportamento potrebbe lasciarci qualche dubbio. Tutto questo ci intriga quasi come un fotoromanzo ma è più divertente. Ciò che conta qui non è “la trama”, piuttosto sarcastica, ma le ragioni e i modi con cui viene raccontata.

Il narratore è un uomo disturbato. Ciò che ricerca nella vita è la “supinazione cerebrale“. Come ognuno sa, la suddetta supinazione, designa “l’assopimento dell’idea dell’io” e di altre cose. È senz’altro utile precisare, comunque, che questo termine è assente, in questa accezione, da tutti i dizionari. E che i giochi di parole di dubbio gusto suggeriti da questa parola sono ricercati e voluti dall’autore. In effetti, è fondamentale notare che malgrado il suo desiderio di supinazione “a venticinque anni all’uomo moderno si rizza ancora” ed è questo il problema. Ma come fare ad attuare la suddetta supinazione con tutte queste emozioni? La cosa più semplice è forse di giocarci insieme, di reinventarle, di alterarle, di conservarle: insomma prenderle in giro. E di consolarsi contemplandone il risultato. Che cosa rimane allora al supinatore contrariato? La gioia viziosa di folleggiare nelle sue contraddizioni, l’allegria giubilatoria di affermare la propria vitalità, lo stupore di accompagnare le piccole miserie umane con una canzoncina che nonostante tutto, consola. Soprattutto bisogna evitare di cadere nel simbolo. Prendere tutto alla lettera. Cercando di trovare la supinazione in tutti gli angoli possibili. Ma di sbieco evidentemente. Perché ciò che salva in fondo è una buona dosa di cattiveria. Si dimentica il Nobel, si dimenticano i commentari e ci si concede una bella lezione di savoir-vivre”.

Evelyne Pieiller

© 18 Marzo 2011

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