Padri e figli
di nicolan
“Il medico ha spesso occasione di notare che il dolore del figlio per la perdita del padre non riesce a soffocare la soddisfazione per aver infine conseguito la sua libertà”. Sigmund Freud (1856-1939)
Affermazione inquietante, a maggior ragione se è vera. Soprattutto per i padri, naturali o simbolici che siano.
Gaio Svetonio (Gaio Svetonio Tranquillo; Le vite di dodici Cesari: Il divo Giulio lib. LXXXII; Longanesi & C. – Milano –1971), cronista romano, riferisce che le ultime parole (in lingua greca) di Giulio Cesare, prima di morire assassinato, sono state: “Anche tu, figlio mio?”.
La pugnalata inferta da Marco Bruto – pare sia stata quella letale – eliminava in un sol colpo un padre adottivo, un “Padre della Patria” e un pater conscriptus (senatore). I giudizi su di lui si sono equamente divisi fra quanti lo hanno reputato un liberatore idealista e quanti un vile assassino, per di più ingrato.
Bruto non è stato il primo tirannicida, né sarebbe stato l’ultimo; lo sconcerto nasce, semmai, da quella parentela ingombrante che fomenta dubbi sulle reali motivazioni del gesto: voleva uccidere il padre-tiranno o il tiranno-padre.
Il dilemma si agitò nell’ombra finché un medico viennese decise di fornire la chiave di lettura della conflittualità padre-figlio, supportata da prove letterarie.
Frugando nei drammi dell’antichità classica, Sigmund Freud, ripescò (travisandola!) la splendida tragedia di Sofocle, “Edipo Re” (409 a.C.), e ne fece il movente di ogni parricidio. Il “padre” della psicanalisi, genitore dogmatico, indusse la sua “creatura” a rivelare che il “complesso di Edipo” affliggeva tutti i figli maschi desiderosi – in modo più o meno latente – di far fuori il padre per possedere la madre.
In verità il drammaturgo greco, accordò la funesta vicenda sul tema dell’ineluttabilità del fato, caro alla tragedia greca: Edipo era la vittima predestinata e incolpevole di una sorte ostile che lo aveva reso, suo malgrado, parricida e figlio incestuoso.
Lasciando da parte l’interpretazione “sessualistica” freudiana, non si può negare che un contrasto fra generazioni ci sia sempre stato, anche se pervicacemente ingabbiato in norme legislative volte a custodire e reiterare l’autorità paterna.
Eppure lo stesso Freud parlò, in un motto di spirito (lapsus?), del sollievo provato dal figlio, dopo la scomparsa del padre, per la libertà acquisita. Frutto di concreta resipiscenza, la puntuale affermazione, tesa ad arco tra causa (morte paterna) ed effetto (libertà conquistata), ignora tuttavia il passaggio laborioso, multiforme, articolato, del positivo vincolo parentale, decretandone a priori il fallimento, in base a “meccanicistici” istinti sessuali.
In altre parole, la sensazione liberatoria che segue la morte del padre, più che una presunta diagnosi di turbe erotiche è lo sconfortante risvolto sintomatico di metodi formativi inadeguati.
Se con libertà intendiamo autonomia, indipendenza, autodeterminazione, e la sua realizzazione rappresenta lo scopo educativo finale, bisognerebbe dosare, a seconda delle tappe evolutive, “interventi” impositivi e propositivi, tenendo sempre ben presente che chi abbiamo di fronte (meglio a fianco) non è materia bruta da plasmare “a propria immagine e somiglianza”, ma un essere in fieri provvisto di proprie potenzialità intellettive, cognitive e affettive da rispettare e agevolare nella loro estrinsecazione.
Qualsiasi ostacolo pretestuoso (autoritario), collocato sul cammino dell’emancipazione, non può che dar adito o ad un atteggiamento apertamente aggressivo, tanto globale quanto confuso, o ad una condotta remissiva, colma di astio e di rancore, incline a mutarsi in cieca violenza.
Con i dovuti distinguo, il paragone, tra le dinamiche che agiscono all’interno dei nuclei familiari e le evoluzioni democratiche che hanno attraversato le società, non sembra troppo azzardato.
In Europa, alla fine del XVIII secolo, dopo lunga gestazione, soffiò imponente e prepotente il vento dell’Illuminismo. I principi, che fino ad allora avevano governato (e condizionato) menti e comportamenti, vennero rifondati o meglio assunsero una direzione diametralmente opposta: la libertà di “esistere” soppiantava il permesso di “vivere”, l’Autorità contrattata quella imposta.
Lo stato di minorità di cui parlava Kant, garantito da condizioni di subalternità, avvertite come insopportabili, si mutò in movimento. La minaccia di “fare un 48”, con riferimento ai moti popolari, che nel 1848 sconvolsero gli assetti politici del continente europeo, non è più uscita dal vocabolario delle rivendicazioni di massa.
Le medesime raffiche soffiano oggi negli stati nordafricani.
La novità, rispetto ad altre rivoluzioni localistiche post-coloniali, sembra risiedere nella diffusa volontà popolare di conquistare un ruolo partecipativo e decisionale rifiutando sia “filantropiche” ingerenze esterne, sia paternità nazionali(ste), laicamente onnipotenti o spiritualmente onniscienti.
Per un popolo capace di affermare i suoi diritti fondamentali, sebbene a caro prezzo, ci sono valide speranze che non sia più disposto, in futuro, ad affidare la propria sovranità a tutori, curatori, propugnatori e custodi del bene altrui, compresi i soverchianti fautori di democrazie “importate”.
Immagine 1: Morte di Cesare (particolare): Vincenzo Camuccini (1771-1884)
Immagine 2: La libertà che guida il popolo : Eugène Delacroix (1798-1863)
© 16 Marzo 2011