La Voce di Trieste

Dietro le manovre con Unicredit sui porti di Monfalcone, Trieste, Koper-Capodistria e Rijeka-Fiume

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Analisi

Sembrerebbe dunque che il colosso bancario italiano Unicredit voglia finanziare davvero la trasformazione del porto secondario di Monfalcone in una Gioia Tauro del Nodest italiano, riducendo a succursale quello già asfittico di Trieste, bloccando lo sviluppo del porto sloveno di Koper-Capodistria e limitando quello di Rijeka-Fiume.

Tanto che il proteiforme vicepresidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona, è appena intervenuto di persona sull’agonizzante governo Berlusconi perché formalizzi in merito un impegno ufficiale prima di dissolversi.

E l’impegno di governo preteso da Palenzona dovrebbe addirittura rivoluzionare la politica portuale italiana, trasformando in “superporti europei” in capo all’Adriatico Monfalcone, ed al Tirreno Genova-Savona, con abbandono o subordinazione dello sviluppo concorrenziale degli altri porti nazionali.

Mentre la guida dei porti di Monfalcone e di Trieste è affidata a proprio a dirigenti operativi di Unicredit: rispettivamente l’ideatore dell’operazione “superporto” Maurizio Maresca, e Marina Monassi appena reinsediata tra vivaci polemiche.

E mentre l’intera politica italiana allo sbando nasconde dietro troppe retoriche sul 150° anniversario dello Stato i maggiori livelli di compromissione mafiosa della sua storia.

 

Il “superporto” senza progetto

Ma se Genova e Savona sono realtà portuali solide e primarie, ad oggi il “superporto di Monfalcone” sembra piuttosto una campagna politica e di stampa, dato che un vero progetto pare nemmeno esista, e comunque non si è visto.

Non si sa quindi nemmeno come e perché i promotori vogliano affrontare problemi e costi tecnici proibitivi come quello dei bassi fondali monfalconesi ad impaludamento costante, che per l’attracco delle grandi portacontainer richiederebbero dragaggi continui.

Mentre il vicino grande porto di Trieste, tenuto semivuoto, ha fondali puliti da 15 metri che con nuovi moli già progettati, e meno costosi, possono arrivare sino a 20 davanti al Porto Vecchio: i migliori del Mediterraneo.

E così per le opere ferroviarie, dove costerebbe molto di meno, e renderebbe di più, migliorare quelle insufficienti di Trieste che realizzarne di nuove per Monfalcone.

Non si comprende nemmeno come Unicredit affermi realizzabile in 4 anni un “superporto” che più verosimilmente ne richiederebbe almeno una decina.

Senza contare che tutti i nuovi progetti di superscali container dovrebbero essere ormai ricalibrati sulle previsioni della nuova rivoluzione industriale, drasticamente riduttiva dei trasporti di prodotti finiti che, salvo catastrofi globali, sta arrivando con lo sviluppo crescente delle produzioni a stampaggio elettronico tridimensionale (come ricordava l’Economist 10.2.11).

E nel frattempo tutti gli altri porti italiani da declassare a beneficio di due “superporti” avranno sicuramente qualcosa da dire.

 

Un’operazione di capitali e pressioni

Se dunque il progetto del “superporto” monfalconese verrà avviato, rischierà di essere soprattutto un grande contenitore di assorbimento per masse di capitali da riversare al settore delle costruzioni e forniture edili attraverso la realizzazione di grandi opere portuali ed infrastrutture.

Colonizzando letteralmente una realtà politica ed economica debole e poco visibile com’è, a differenza da Trieste, quella della cittadina di Monfalcone. Che già con l’attuale attività cantieristica e di porto minore dev’essere tenuta sotto attenzioni antimafia particolarmente intense.

Ma per ora siamo soltanto ad una fase, non meno interessante, di utilizzo preliminare dell’operazione come perfezionamento della politica nazionale di depressione del porto Trieste, e di pressione invasiva su quello di Capodistria.

 

La depressione del porto di Trieste

Il porto di Trieste nasce nel ‘700 come porto franco del vasto impero plurinazionale degli Absburgo, divenendo nel secolo successivo e sino al 1914 il principale della Mitteleuropa e tra i maggiori del Mediterraneo. Gli interessi dei porti concorrenti della penisola italiana ebbero perciò ruolo decisivo nello spingere la neonata Italia a “liberarlo” finanziandovi l’irredentismo ed entrando in guerra nel 1915.

La successiva politica di espansione e potenza del fascismo conservò tuttavia parte dei ruoli di Trieste, che il Trattato di Pace del 1947 costituì in stato indipendente con funzione di porto franco internazionale sotto tutela dell’ONU. Vanificata l’indipendenza dai diversi equilibri della guerra fredda, con accordi internazionali del 1954 e 1975 città e porto sono tuttavìa ritornati sotto amministrazione e poi sovranità italiana.

Dove ormai prevalevano gli interessi opposti dei grandi porti della penisola, che si tradussero  nello smantellamento del forte sistema cantieristico triestino, in una politica di depressione graduale del porto (in particolare delle aree ed attività più concorrenziali, quelle del porto franco) e di sottodimensionamento dei collegamenti ferroviari, e nel diniego di aree portuali dovute ai Paesi del retroterra mitteleropeo, in particolare Austria e Slovenia (ex Jugoslavia).

La Slovenia si è perciò creata a Koper-Capodistria, letteralmente dietro l’angolo, un proprio porto sostitutivo e concorrenziale moderno, che si sviluppa così fuori portata dall’operazione depressiva italiana così come il vicino porto croato di Rijeka-Fiume.

A Trieste invece la classe politica locale ha continuato ad eseguire le direttive romane di asfissìa del porto, sino a cederne ora illegittimamente alla speculazione immobiliare ed edilizia la zona franca maggiore (leggi qui le nostre inchieste-denuncia).

 

Le manovre su Capodistria

Con la dissoluzione conflittuale della federazione jugoslava e l’indipendenza della Slovenia e della Croazia si è sviluppata verso di esse una politica italiana di pressione intensa quanto anomala, che ha finanziato contemporaneamente rivendicazioni neo-irredentiste ed infiltrazioni politico- economiche, puntate in particolare sul sistema bancario e sui porti di Capodistria e Fiume.

Come una decina d’anni fa, quando alcuni dei protagonisti dell’attuale progetto Unicredit coinvolsero gli allora dirigenti del porto di Capodistria nella gestione notoriamente fallimentare del terminale container triestino (Molo Settimo), con obbligo di subordinarvi il porto sloveno e con lo scopo di ottenerne azioni a rimborso del debito così maturato.

La manovra venne infine sventata, anche perché dalle corrispondenze ? che conserviamo ? tra i responsabili risultava che quelli di Luka Koper stavano nascondendo all’opinione pubblica ed al governo sloveni la natura reale dell’operazione (mai chiarita sulla stampa italiana).

Ma le manovre romane sul porto di Capodistria non si sono mai interrotte, per ottenervi partecipazioni azionarie o finanziarie condizionanti, dirette od indirette, anche approfittando delle privatizzazioni ed incoraggiandole con alcuni appoggi influenti in Slovenia.

I governi di Lubiana hanno sinora resistito per difendere la valenza strategica primaria dell’unico porto del loro Paese, ma hanno anche mostrato segni ed aree di debolezza.

Ed ora arriva Unicredit, che ostentando potenza economica credibile ed appoggi governativi romani agita davanti alla parte slovena lo spauracchio del preteso “superporto” monfalconese.

Proponendo, guarda caso, collaborazioni previ appositi patti di compartecipazione finanziaria per “tagliare fuori” Trieste.

 

Conclusioni

Ad oggi queste strane manovre con Unicredit hanno quindi tutto l’aspetto del vecchio gioco furbesco delle tre carte, dove vince sempre e solo il banco. Cioé qui gli interessi che stanno dietro l’operazione .

Ed il solo modo per sconfiggerli è comprendere e difendere quale sia il vero interesse di Trieste nell’Europa del 2011, fuori dai pregiudizi del passato: un’integrazione naturale, onesta e produttiva delle nostre attività portuali con quelle di Capodistria, a formare un “superporto” vero ed internazionale, riattivandovi al massimo il nostro regime speciale di porto franco.

 

Paolo G. Parovel

© 16 Marzo 2011

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