Attese e aspettative
di nicolan
“Una vita più lunga non è necessariamente migliore, ma una morte attesa più a lungo è senz‘altro peggiore”. Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 64 d.C.)
Samuel Beckett scrisse il dramma “Aspettando Godot ” verso la fine degli anni quaranta; venne pubblicato in lingua francese solo nel 1952 e rappresentato, per la prima volta, al Théâtre de Babylone, l’anno successivo.
Il tema dibattuto è l’attesa, quella strana condizione umana che si oppone specularmente all’attività che generalmente caratterizza la vita quotidiana, sebbene l’assenza di qualsiasi decisione possa confonderla, erroneamente, con la passività.
Per quanto inoperosa possa essere, l’attesa si differenzia dalla passività per due elementi sostanziali: la mancanza di definitiva rassegnazione o accettazione supina che determina l’atteggiamento apatico del “passivo” e la concezione del tempo che, pur essendo specificamente propria, comunque si rivolge al futuro, ignorato dall’abulico.
Il tempo dell’attesa, come sottolinea acutamente Eugène Minkowski (1885-1972), scorre in senso contrario; cioè il soggetto non si proietta dinamicamente e normalmente verso il futuro ma attende che questo gli venga incontro.
Un modello pratico, sebbene effimero, dove l’esperienza è percepibile, sono le tante “sale d’aspetto” che ognuno di noi ha avuto modo di frequentare: negli aeroporti, nelle stazione ferroviarie, nelle anticamere professionali (medici, avvocati, uffici etc.).
Il fluire del tempo soggettivo, in tali casi, subisce una battuta d’arresto, viene, per così dire, sospeso, perde il ritmo consueto, l’abituale articolazione tra passato e avvenire, lasciando spazio a un presente insolitamente dilatato.
Ed è un presente pressoché insignificante privo com’è di qualsiasi intenzionalità progettuale. Per superare l’immobilità assoluta e l’ansia che ne deriva, si ricorre al passa-tempo, nel tentativo di ingannar-lo, ammazzar-lo, di distrarre l’attenzione dalle lancette dell’orologio, dal lento gocciolio dei minuti, dall’ossessivo ticchettio dei secondi.
La penosa sensazione di blocco operativo, di azioni coartate destinate a restare senza un senso durevole e carenti di ogni riferimento a passato e futuro, trova parziale rifugio nell’aspettativa, di quanto troveremo dopo l’attesa, quando gli ostacoli che impediscono la libera espressione della nostra volontà verranno rimossi.
L’attesa è in ogni caso allacciata all’aspettativa che, essendo fuori da qualsiasi condizionamento personale, non può che assumere il colore neutro dell’illusione.
L’ansia che scaturisce dallo scollamento originato da volere e potere, desiderare e realizzare, indugiare e fare, domina il quadro di questa particolare condizione esistenziale.
All’aspettativa generica di un cambiamento, che rimuova se non altro le barriere preclusive, corrisponde una speranza ugualmente imprecisa per dei mutamenti tanto radicali quanto vaghi; l’importante è che venga azzerato il distacco deliberativo che intercorre tra evento perseguito e accadimento sopportato.
L’unica decisione praticabile è, per questa ragione, il rinvio, la proroga dei propri intenti e disegni a momenti propizi e futuro migliore, a quando la destinazione del tempo sarà di nuovo fruibile liberamente.
Il problema è quindi il futuro connesso indissolubilmente alla vita umana il quale trascende il suo significato meramente cronologico del domani, diventando una visione di ulteriorizzanti possibilità. Il tempo “inscatolato” , più o meno ampio dell’attesa, produce di fatto una stasi degli atti intenzionali coartando i successivi sviluppi o rendendoli aleatori.
Quando diciamo “non c’è più futuro” non alludiamo di certo alla fine dei giorni, ma alle opportunità che ci vengono precluse; la conseguenza sono i comportamenti senza slancio, privi d’interesse, marginali, simili ai movimenti adottati nel militaresco “segnare il passo”, stravagante parodia della marcia.
Il futuro che viene sottratto, e con esso il procedere verso una meta individuale o collettiva precisa, alimenta una costante ma confusa speranza in cambiamenti epocali, rivolgimenti totali, secoli nuovi, anche questi provenienti e attesi dal di “fuori”.
In periodi di profonda crisi economica, sociale o politica, il sentimento del “tempo sospeso” può coinvolgere singole persone, sia intere popolazioni. Interviene allora la fantasia a colmare con le sue immagini vivaci e seducenti quel “dopo” che pare irraggiungibile sul piano concreto.
La funzione di alcuni miti, nella loro versione civile o religiosa, sembra soddisfare il desiderio, squisitamente antropologico, di allacciare stabilmente il passato al futuro, nel quale collocare un presente animato da fiducia per l’avvenire.
L’età dell’oro (aurea aetas) dei latini, ciclicamente rinnovabile, si accompagna, in genere, a prodigiose nascite e personaggi eccezionali.
La spada Excalibur, uscì dall’acqua o spuntò da una roccia, per armare la mano del liberatore Artù; la lama che il guerriero vietnamita Le Loi ricevette dal dio Kim Qui gli servì a sconfiggere gli invasori Ming; il re ungherese Mátyás Hunyádi, detto Mattia Corvino il giusto, sconfisse i Turchi (1464) e garantì al suo Paese un periodo di grande prosperità.
Eroi popolari, Salvatori, Mahdi, Saggi, Profeti e Dei incarnati, tutti ritorneranno nei momenti bui ponendo fine all’attesa e trasformare le aspettative in certezze.
Nel frattempo, forse vale la pena riflettere che la vita soggettiva, dalla nascita in poi, racchiude “naturalmente” un futuro da programmare, sempre che non si voglia esercitare scientemente l’attendismo auspicandosi imprevedibili e miracolosi eventi esteriori con il rischio di rimanere fermi in un’attesa inconcludente al pari dei personaggi di Beckett.
Vladimir: Allora? Andiamo? Estragon: Si,andiamo. E nessuno si muove. Fine.
Immagine 1: Viandante sul mare di nebbia, Caspar David Friedrich (1774-1840)
Immagine 2: L’attesa, Felice Casorati (1883-1963)
© 24 Febbraio 2011