La Voce di Trieste

La Cassazione riconosce come malattia professionale l’esposizione al fumo passivo sul posto di lavoro

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La dott.ssa Fulvia Bonivento, della Segreteria Nazionale Finanzieri Democratici, ci segnala una recentissima sentenza di Cassazione che riconosce come malattia professionale risarcibile l’esposizione al fumo passivo nell’ambiente di lavoro. Ne pubblichiamo la comunicazione perché la decisione é importante per tutte le situazioni di questo genere (che includono anche le caserme ed uffici delle forze dell’ordine e militari).

Con sentenza 3227 del 10 febbraio 2011 la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha riconosciuto, sulla base dell’anamnesi lavorativa e patologica e secondo i più recenti studi epidemiologici, la possibile stretta correlazione tra l’esposizione al fumo passivo e i sintomi respiratori cronici ed il suo carattere di malattia professionale.

Il caso di specie vede protagonista un geometra dipendente di un Comune, che per oltre trent’anni aveva lavorato circa cinque ore al giorno in un locale non areato e aperto al pubblico insieme ad collega fumatore, riportandone patologie polmonari. Il giudice di primo grado aveva escluso che vi fossero elementi sufficienti per ricondurle all’esposizione al fumo passivo durante l’attività lavorativa. Ma la Corte d’appello ha riformato la sentenza, dichiarando il diritto del lavoratore alla costituzione della rendita per inabilità permanente, valutata al 47% su perizia del consulente tecnico, come malattia professionale (asma bronchiale intrinseca ed enfisema polmonare); la perizia aveva infatti evidenziato una marcata iperdiafania, compatibile con enfisema polmonare attribuibile verosimilmente all’esposizione per diversi decenni al fumo passivo.

L’INAIL è ricorso in Cassazione affermando che la scelta dei Giudici d’appello ? indennizzabilità della patologia sul presupposto che possa essere qualificata professionale qualsiasi malattia causata da qualunque rischio comunque connesso al lavoro ? è in contrasto con altra opzione  che riconosce tutelabili come malattie professionali anche le patologie diverse da quelle elencate nelle apposite tabelle, purché causate dal rischio specifico di una delle lavorazioni indicate nell’art. 1 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124.

Ora la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ritenendo corretta la decisione della Corte d’Appello, perché «si è uniformata agli approdi ermeneutici di legittimità secondo cui: a) la tutela antinfortunistica del lavoratore si estende alle ipotesi di cd. rischio specifico improprio, definito come quello che, pur non insito nell’atto materiale della prestazione lavorativa, riguarda situazioni ed attività strettamente connesse con la prestazione stessa all’attività lavorativa); b) la nozione di rischio ambientale comporta che è tutelato il lavoro in sé e per sé considerato e non soltanto quello reso presso le macchine, essendo la pericolosità data dall’ambiente di lavoro; c) i fattori di rischio per le malattie non tabellate comprendono anche quelle situazioni di dannosità che, seppure ricorrenti anche per attività non lavorative, costituiscono però un rischio specifico per l’assicurato».

© 23 Febbraio 2011

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