La Voce di Trieste

Giulio Casale e “La canzone di Nanda” al Teatro Comunale di Monfalcone

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Lo spettacolo, ispirato a Fernanda Pivano, ripercorre lo spirito della beat generation sino ai giorni nostri

Fossimo a Very Victoria, o in qualsiasi salotto per amanti della quisquilia, i primi commenti allo spettacolo di Giulio Casale ammiccherebbero indubbiamente ai gridolini estatici delle signore presenti al Teatro Comunale di Monfalcone: “bravo, e che pezzo di f…”, e “da risveglio ormonale” i sintagmi più significativi. Ma qui non siamo a Very Victoria e il sex-appeal dell’artista conta assai poco. Perché Giulio Casale è soprattutto bravo, ma bravo davvero. Uno dei pochi (l’unico?) esponenti di spicco della forma teatro – canzone condotta alle vette più stratosferiche dal maestro Giorgio Gaber (uno dei riferimenti che da sempre accompagnano l’artista veneto).

Il suo spettacolo La canzone di Nanda, ispirato alla straordinaria figura dell’amica Fernanda Pivano (che collaborò con Casale durante la stesura), esplora secondo schemi anticonvenzionali la beat generation, forse il movimento letterario e culturale più contraddittorio, debordante e rivoluzionario di tutti i tempi; una pacifica rivolta di cui Fernanda Pivano per prima comprese il senso e il fine più di chiunque altro. Traendo spunto dagli insegnamenti magistrali offerti al mondo dalla compianta maestra nei “Diari 1917 – 1973”, Casale tesse una pregevole tela narrativa attorno ai protagonisti del movimento ma non solo; una tela fitta di aneddoti, follie, fragilità.

Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Gregory Corso, William Burroughs: gli esponenti di punta del movimento, dei quali Casale propone un singolare ma azzeccato parallelismo con i “quattro cani” dell’omonima canzone di De Gregori. E poi William Saroyan, autore dalla prosa “zuccherosa” (come la definì Bukowski) la cui raccolta di racconti “Che ve ne sembra dell’America” è stata inserita dalla Pivano nella lista dei 100 libri irrinunciabili nel suo “Libero chi legge”; Ernest Hemingway, maestro e idolo totale di Nanda (che disse di Hemingway: “ha influenzato l’intera letteratura mondiale del ‘900”), del quale si racconta che, tra serio e faceto, redarguì  la scrittrice quando seppe del suo astemismo: “figlia, questa non me la dovevi fare!”; dunque Henry Miller, che più di tutti aveva intuito le potenzialità emancipatrici del sesso e ne parlò nelle forme estreme e meravigliose rimaste ineguagliate per ricchezza ed efficacia; quello più volte processato per oscenità e censurato negli Stati Uniti d’America, stampato (ma boicottato) in Francia e addirittura contrabbandato in Italia, che non vide un centesimo dei diritti d’autore maturati fino ai 50 anni di una vita allo sbando divenuta leggenda.

Dai ’50 ai giorni nostri, lo spirito beat delle vittime della “grace under pressure” dei Tim e Jeff Buckley, di Kurt Cobain e David Foster Wallace, di Cesare Pavese: angeli dalla pelle troppo sottile che non seppero resistere al martirio disumano messo in atto dalla società massificante e massificata, tragicamente morti per loro stessa mano. La colonna sonora dello spettacolo è “Times they are a changing” di Bob Dylan, il mito vivente che per Nanda (la quale, ricorda ancora Casale, “non ha mezze misure”) era la versione americana di colui che lei stessa definì “il più grande poeta italiano del ‘900”: quel Fabrizio De André che, per il suo acceso antimilitarismo e il disprezzo delle ipocrisie del presepio borghese, nonché per la fascinazione verso i reietti e i quartieri “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, rimane l’unico vero beat italiano. La scelta del brano di Dylan, che si mescola a canzoni scritte da Luigi Tenco, Woody Guthrie, De André, Jacques Brel e lo stesso Casale, è un invito a vincere quella “damnatio memoriae cui sembriamo condannati ai giorni nostri”, a riprendere in mano un presente che non può essere solo arrendevole nostalgia per quegli anni formidabili.

I tempi stanno cambiando, ci dice Casale, è ora di darci una scossa. Bisogna ripartire da Nanda, ridare un senso al nostro presente ispirandoci al suo entusiasmo, la sua curiosità, il suo coraggio, per poter ricominciare ad amare anche ciò che di apparentemente poco bello la vita sembra offrirci, con lo sguardo eternamente proteso verso un amore più grande. Nelle “Città invisibili”, Italo Calvino scrive: “l’unico modo che abbiamo per difenderci dall’inferno che è la nostra vita, è cercare quello che non è inferno. E farlo durare, e dargli spazio”; è ciò che fa il cameriere del racconto “Un posto pulito, illuminato bene” di Hemingway, su cui Casale costruisce uno dei momenti più toccanti dello spettacolo: creare spazi, prendersi cura degli altri, trovare l’alba dentro all’imbrunire. Soprattutto questa, era Nanda. Che, se anche la morte non le ha dato il tempo di assistere a quello che è anche il suo spettacolo, può stare tranquilla: le sarebbe sicuramente piaciuto.

© 23 Febbraio 2011

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