Poesie e pedagogie
di nicolan
“La vera poesia può comunicare anche prima di essere capita” . Thomas Stearns Eliot (1888-1965)
L’espressione artistica in generale, e poetica in particolare, evoca senza affermare, abbaglia senza accecare, celebra senza canonizzare.
È il suo fascino. Sebbene sia fatta di parole, le trascende, passa l’intendimento razionale e va oltre, per introdursi in quel misterioso angolo di cervello (o di anima) che afferra l’insieme e lo traduce in sensazione indicibile.
La parola greca ??????? (poìesis), che noi traduciamo con “poesia”, deriva da ?????: fare, produrre. Ma produrre perché e cosa ? Ambedue gli interrogativi sono destinati a rimanere senza repliche conclusive. Se intendessimo il “prodotto” poetico soltanto come un insieme di vocaboli, di frasi, di suoni liricamente gradevoli e metricamente armoniosi, non potremmo giustificarne l’effetto amplificato di magiche, indicibili risonanze che i suoi versi provocano. Quindi qualcosa di più: è il tutto presente che si mostra senza limiti razionali e, pur includendoli, li travalica in immagini dense, “impressionanti”, estatiche.
Nulla costringe al “passo” superiore, all’ascesa verticale, al cammino impervio del distacco mondano, se non l’intenzione profonda di attingere a verbalizzazioni inconsuete, ad abbandoni catartici, a declinazioni anomale dei modi di essere.
Sono impressioni comunicabili e percepibili soltanto nel linguaggio recondito dei sentimenti, un dono dell’artista, un’esplosione vitale a-finalistica.
E l’estasi, l’”uscire” fuori di sé stessi, dai canoni logici, qualifica la folgorazione della visione d’assieme, comune all’intuizione artistica, all’esaltazione della fede, all’entusiasmo amoroso, alla disgregazione della follia, che pur nella diversità tangibile delle conseguenze finali, sembrano intraprendere, inizialmente il sentiero condiviso dello “spingersi oltre”.
L’intuizione del poeta, celata nello scintillio delle parole, emana allora un alone di luce che vuol essere un suggerimento, un’emozione, un anatema.
La poesia di Giovanni Pascoli (1855-1912) “L’aquilone”, spesso recitata e mai usurata, avanza, fra le righe, qualche proposta.
In faccia ad “Urbino ventoso” ogni ragazzo invia “la sua cometa pel cielo turchino”. Ognuno affida al soffio d’aria il proprio aquilone ignaro della metafora a cui dà corso. Quel rombo di carta è la sua esistenza; altri hanno in mano il filo-guida che li aiuta a sollevarsi: è il ruolo pedagogico della famiglia.
Qualche aquilone, favorito da una leggera brezza prende quota senza problemi: s’innalza lentamente ma costantemente, senza strappi; altri faticano a trovare il flusso propizio: necessitano di una corrente artificiale. Il manovratore-pedagogo quindi corre per un tratto di strada trascinandosi dietro il timido, incerto pupillo, fino a trovare l’aria adatta a sostenere le ali: “ondeggia, pencola, urta, sbalza,risale, prende il vento”. Uno di questi si inerpica verticalmente “e ruba il filo dalla mano, come un fiore che fugga sullo stelo esile”.
È la vertigine dell’altezza, della libertà: il momento più delicato e pericoloso. La forza del turbine accelera l’ascesa malgrado “una ventata di sbieco” sia sempre in agguato. Che fare? La sensibilità del pedagogo viene messa alla prova: trattenere il “filo” significherebbe impedire all’aquilone di raggiungere la sua “quota”; concederne troppo lo esporrebbe al rischio di una sbandata, forse irreparabile.
Il lavoro consiste – e qui l’attenzione deve essere continua – nel lasciare e riprendere il “filo” con un gioco di polso energico e costante, pronto ad assecondare qualsivoglia spinta ascensionale ma altrettanto rapido a recuperare il deleterio lasco.
Gli educatori in senso lato, genitore, insegnante o precettore che siano, vengono deputati a manovrare quel “filo”, impalpabile eppure solido legame comunicativo attraverso cui passano sollecitazioni e restrizioni, consigli e divieti, elogi e rimproveri.
E come qualsiasi comunicazione (verbale o comportamentale) prevede, le vibrazioni che avvertiamo nella “mano” trasmettono titubanze, smarrimenti, paure oppure slanci prolifici, risolutezze, spavalderie.
L’importante è tenere sempre presente che le “mosse” del nostro aquilone sono in effetti domande incalzanti che esigono risposte pertinenti, riscontri puntuali dettati più da disponibilità affettiva che da professionali teorie educative.
Infine trova la sua posizione ideale e volteggia stabilmente; le oscillazioni non sono più brusche, i tentennamenti brevi, acquisisce una propria solida autonomia.
A questo punto è possibile annodare la cordella ad un elemento fisso e guardare compiaciuti il risultato raggiunto, appagati dal suo volo regolare ed equilibrato.
La soddisfazione di far librare nel cielo un oggetto di carta, allegoria di tutti i voli umani (materiali e spirituali), non era estranea nemmeno ai “selvaggi” Stieng (primitiva tribù della Cambogia) i quali, secondo il racconto del naturalista Mouhot (1861), si divertivano a mandare in alto i loro aquiloni equipaggiati con uno strumento musicale simile ad un arco: “durante la notte, quando il cervo volante plana in aria, mosso dal vento, produce dei suoni dolci e gradevoli che si ascoltano con diletto”.
Ci piace pensare a quelle armonie, ingegnoso artificio adottato dagli Stieng, come a una sorta di sonora replica gratificante per quanti hanno favorito, sostenuto e guidato il sogno di ogni bambino di prendere il volo.
Foto 1: Pedagogo
Foto 2: Colori nel vento di Alessandra Placucci
© 15 Febbraio 2011