“Il discorso del re”, un film da non perdere
di IVicinanza
Commozione e humor che coinvolgono lo spettatore
Inghilterra, 1934. Il duca di York, secondogenito di re Giorgio V, vive con disagio l’essere un personaggio pubblico a causa di un’insopportabile difetto di balbuzie.
Ha fatto tanti tentativi per eliminare il disturbo infantile poco gradito alle orecchie del popolo inglese, tese all’ascolto di un suo discorso radiofonico, e ancor meno tollerato dalla sua famiglia; mal si vedeva una simile debolezza per un probabile futuro sovrano.
Un problema “meccanico”, così lo definiscono il duca Bertie e la sua affezionatissima moglie, lady Lyon, a cui si aggiungono scandali di famiglia, pregiudizi di corte e il presagio di una nuova guerra.
Provvidenziale l’aiuto del dottor (non per studi, né per certificati) Lionel Logue: dizione perfetta, amore spassionato per la recitazione, un pizzico di ironia ed ecco la ricetta per la sua fama di logopedista infallibile.
Tensioni, dubbi, titubanze ed etichette frenano lo spirito coraggioso “più di tutti i suoi fratelli” che si cela dietro desolanti, lunghe pause e tintinnanti esordi vocali del futuro re, un re che alla fine farà del suo fardello la forza di una bizzarra amicizia.
Alla paura dell’incombente minaccia nazista si unisce uno humor inglese così sottile, ironico ed autoironico, la chiave di volta di questa pellicola storica che quasi rasenta il comico: battute imprevedibili e momenti toccanti, commozione e leggerezza accompagnano la visione di un film che, tra le tante cose, enfatizza l’indissolubile legame e l’invisibile limite tra pubblico e privato, già presente a partire dall’avvio delle comunicazioni di massa con l’utilizzo massiccio della radio.
É con questo sapore agrodolce che Thomas George Hooper, decide di raccontare la storia di re Giorgio VI, regnante introverso, sicuramente non desideroso del ruolo riservatogli dal destino, e dotato di una tenerezza inconsueta in chi è nato per detenere il potere.
Alle inquadrature fisse e alla messa in scena frontale si alternano veri e propri pedinamenti dei protagonisti della vicenda, con primissimi piani che intensificano il senso di accerchiamento che il popolo, il Parlamento e la guerra esercitano sul sovrano protagonista; il minimalismo e il ritmo alternato catturano l’attenzione che non cade, non cede mai.
Forte della standing ovation ottenuta alla presentazione al Toronto International Film Festival, The King’s speech, questo il titolo originale, merita tutte e 12 le candidature agli oscar 2011 come miglior sceneggiatura originale (seguita da Davis Seidler), miglior montaggio (di Tariq Anwar), miglior scenografia (di Eve Stewart e Judy Farr), migliori costumi (di Jenny Beavan), miglior colonna sonora (con Alexandre Desplat), miglior missaggio sonoro (con John Midgley, Lee Walpole e Paul Hamblin) e, ovviamente, miglior film.
Risultato che non prescinde dai talentuosi protagonisti: Colin Firth (che ha ottenuto per questo ruolo il Golden Globe come miglior attore) ci ripropone l’indimenticabile dolcezza che già aveva fatto conoscere in Il diario di Bridget Jones (del 2001), dove vestiva benissimo il maglioncino di lana fatto a mano con le renne, e altrettanto bene indossa, qui, i panni del regnante; puntuale anche l’interpretazione di Geoffrey Rush, che come bizzarro curatore, fiero delle sue origini australiane, ma dal comportamento e spirito precisamente british, sta proprio bene.
E che dire di Helena Bonham Carter? Dai personaggi deviati (come Marla Singer in Fight Club di David Fincher, con Brad Pitt e Edward Norton) disturbati mentalmente e antagonisti (con il ruolo di Bellatrix Lestrange nella fortunatissima saga di Harry Potter, o anche nei panni della Regina di Cuori in Alice in Wonderland diretto da Tim Burton) veste quelli della moglie e madre premurosa nonché donna di carattere.
Un lavoro da non perdere, che lascia estasiati e soddisfatti anche per il mix tra storico drammatico e commedia psicologica, che vagamente rimanda al grande successo tutto italiano di La vita e bella.
Thomas George Hooper
Londinese di nascita, conosce il produttore Matthew Robinson durante i suoi studi alla Oxford University, grazie al padre, direttore della United News & Media, che gli trova un lavoro da regista presso la CBBC.
Nel 1992 dirige il cortometraggio Painted Faces e poi si dedica al suo vero successo, telefilm e miniserie come: Byker Grove (1997); EastEnders – The Mitchells – Naked Truths (1998-2000); Cold Feet (1999); Love in a Cold Climate (2001) e ancora film tv quali Daniel Deronda (2002) e The Last Witness (2003).
Il debutto cinematografico è del 2004 con il film Red Dust e poi torna alla cinepresa per Il maledetto United (2009) dove racconta la storia di Brian Clough, storico allenatore del Nottingham Forest, ma è nel 2005 che ottiene maggior successo grazie alla miniserie Elizabeth I che gli vale un Emmy come miglior regista.
Ad oggi è uno dei migliori registi britannici televisivi (e non) sulla piazza.
Colin Firth
Figlio di due docenti universitari, viene accudito dai nonni missionari e con loro trascorre i primi cinque anni di vita in Nigeria. Già da adolescente si avvicina alla recitazione iscrivendosi al Drama Centre di Chalk Farm, dove viene notato, durante una rappresentazione di fine corso, per la sua interpretazione di Amleto, e invitato a entrare nella compagnia del West End di Londra. Dopo le prime messe in scena di Another Country di Julian Mitchell, appare anche in televisione e poi al cinema, nel 1984, riprendendo il ruolo di Tommy Judd dell’opera di Mitchell.
Tra i suoi personaggi più impegnativi spiccano quelli di Valmont (1989) di Milos Forman e di Darcy, il protagonista maschile di Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, interpretato nella miniserie televisiva del 1995 che ha entusiasmato il pubblico inglese.
Nel 1997 interpreta Jess Clark nel film Segreti di Jocelyn Moorhouse e l’anno successivo come Lord Wessex prende parte al grande successo di Shakespeare in Love.
A consolidare la sua fama arrivano Il diario di Bridget Jones del 2001, Love Actually del 2003 (diretto da Richard Curtis con un cast di grandi, da Hugh Grant, Liam Neeson, Emma Thompson, Alan Rickman, Keira Knightley, Bill Nighy e Rowan Atkinson) e ancora Che pasticcio Bridget Jones del 2004.
Nel 2008 balla e canta con Meryl Streep nel musical Mamma Mia!, nel 2009 partecipa a Un matrimonio all’inglese, compare anche in A Single Man di Tom Ford, Dorian Gray di Oliver Parker e A Christmas Carol di Robert Zemeckis.
Geoffrey Rush
Divo australiano, laureato in lettere inglesi all’Università del Queensland, scopre la passione per il cinema a vent’anni. Si iscrive al Brisbane’s Queensland Theatre Company e nel 1975 parte per frequentare la Scuola francese di Mimo di Jacques Lecoq.
L’esordio avviene direttamente sul grande schermo nel 1981 con Hoodwink pur continuando a dirigere svariati spettacoli teatrali.
É nel 1996 che, alla matura età di 45 anni, ottiene i maggiori consensi grazie alla performance in Shine di Scott Hicks, che gli vale l’Academy come Miglior Attore.
Lo si ritrova anche in I Miserabili, Elizabeth e Shakespeare in Love, dove, ancora una volta accanto a Colin Firth riceve la nomination all’Oscar come Miglior Attore non Protagonista, ripetuta anche dopo l’interpretazione del Marchese de Sade, in Quills – La Penna dello Scandalo.
Ma i più lo ricorderanno nei panni del fetido, opportunista e mascalzone Capitan Barbarossa in La Maledizione della Prima Luna, I Pirati Dei Caraibi – La Maledizione Del Forziere Fantasma e Pirati dei Caraibi – Ai confini del mondo.
Prima dell’ultimo ruolo come logopedista, si è aggiudicato il Golden Globe per il comico Peter Sellers in Tu chiamami Peter (2005) a cui è seguito lo storico The Golden Age del 2007.
Helena Bonham Carter
Anche lei londinese di nascita, ma con radici franco-ispaniche ereditate dalla madre, è di famiglia aristocratica discendente del politico inglese liberale Herbert Asquith.
Soffre un’infanzia angosciosa, ma trova riparo nell’arte, dalla recitazione (nel 1982 interpreta Giulietta, in una rappresentazione scolastica) alla poesia (vince un concorso per giovani poeti).
Dopo aver messo la sua foto in un catalogo di casting, cerca un agente che la aiuti a muovere i primi passi nell’ambito dello spettacolo, passione che le impedisce, nonostante gli ottimi voti, l’accesso
all’Università di Cambridge.
Nel 1986 esordisce al cinema interpretando l’erede al trono Lady Jane, ma riesce a farsi notare nei panni di Lucy in Camera con vista di James Ivory.
Nel 1990 viene scelta da Franco Zeffirelli per prendere la parte di Ophelia nell’Amleto e due anni più tardi torna ad essere diretta da Ivory in Casa Howard.
Nel 1997 ottiene la candidatura agli Oscar come migliore attrice protagonista per l’interpretazione in Le ali dell’amore di Iain Softley, nel 1999 è la protagonista femminile in Fight club di David Fincher e la si ritrova nel folle ruolo di Bellatrix Lestrange dall’episodio numero 5 dell’opera di J.K. Rowling, Harry potter e l’ordine della fenice, fino all’ultimo, attesissimo, Harry Potter e i doni della morte- parte seconda, previsto nelle sale italiane il prossimo luglio.
Nel 2001, durante le riprese de Il pianeta delle scimmie, inizia il sodalizio artistico con il marito Tim Burton, regista di tantissimi lungometraggi come Batman del 1989, Edward mani di forbice del 1990, Batman – Il ritorno del 1992, Il mistero di Sleepy Hollow del 1999, La fabbrica di cioccolato del 2005, e di tanti altri, in cui sceglie proprio la consorte come protagonista: è il caso di La sposa cadavere del 2005, Sweeney Todd: Il diabolico barbiere di Fleet Street del 2007 e Alice in Wonderland dello scorso anno.
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© 1 Febbraio 2011