La Voce di Trieste

Il Thom Pain di Elio Germano non convince

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Abbiamo assistito allo spettacolo andato in scena in dicembre al Teatro Comunale di Monfalcone, e ora in scena alla Sala Bartoli del Teatro Rossetti di Trieste fino a domenica 23 gennaio.

Immaginate un bambino vestito da Tex Willer, se ci riuscite. Così si introduce Thom Pain, antieroe solitario dal nome curioso (e volutamente didascalico), con alle spalle una storia come tante: un trauma infantile per l’orribile morte del suo cane, un amore finito male e un amico traditore a svettare su una serie più o meno infinita di delusioni e sofferenze.
Esponendo al suo pubblico cicatrici ancora aperte, in una sorta di confessione laica, Thom Pain ricerca l’ardua catarsi che dovrebbe ridare un senso alla sua vita disgraziata e condurlo alla salvezza. Entra nel buio, senza un accompagnamento sonoro né una scenografia. Sul palco, solo una sedia, una bottiglia d’acqua e un dizionario. Una parola cattura l’attenzione del protagonista: “paura”, termine con cui Thom Pain si accorge di aver convissuto da sempre, e della cui onnipresenza, ora che si guarda indietro, non sa spiegare i motivi. La vita è troppo breve, dice, per avere paura. Paura di cosa, poi, non è dato a sapersi.
L’invito, chiaro, è quello di essere coraggiosi nelle proprie scelte, e lui, Thom Pain, sottolinea che ce la sta mettendo tutta. La buona volontà, in effetti, c’è. Il talento smisurato di Elio Germano nel dargli voce, anima e corpo, pure. Per il resto, poco altro. A voler essere crudeli, o poco indulgenti, si potrebbe intravedere nel sottotitolo (“basato sul niente”) un’ammissione di colpa. Il testo di Will Eno, mediamente acclamato dalla critica, presenta contenuti già sentiti altrove (e meglio) in una forma intrisa di un non-sense che risulta assai stucchevole, soprattutto se si considera l’amaro in bocca che lascia l’esigua durata dello spettacolo (circa cento minuti, a un costo che, se non grida vendetta, poco ci manca).
Intendiamoci: Germano è e si conferma un fenomeno straordinario, ma, paradossalmente, è proprio mentre lui signoreggia sul palco, che lo spettatore attento può cogliere la relativa pochezza del testo di Eno. Accade la stessa cosa, da anni, in quasi tutti i film in cui Germano detiene un ruolo rilevante: al di là di alcuni esempi davvero notevoli (come Mio fratello è figlio unico di Daniele Lucchetti, o Romanzo Criminale di Michele Placido, in cui comunque Germano si vede poco), appare sempre ineluttabile la considerazione per cui la sontuosità dell’attore romano conferisca un valore aggiunto quasi eccessivo a pellicole in sé mediocri, ove non orride in sommo grado. Ne è lampante esempio La nostra vita di Daniele Lucchetti: un’opera certamente dignitosa, ma che deve gran parte del suo successo alla prova debordante di Germano, giustamente premiato come miglior attore (ex-aequo con Javier Bardem) al 63° Festival di Cannes.
Sin dalle prime battute di Thom Pain, è chiaro a tutti che sul palco sieda un autentico maestro (che da solo certifica, se mai ce ne fosse bisogno, le immense potenzialità di un’industria cinematografica tristemente allo sbando e forse in coma irreversibile), abilissimo nel rendere comunque piacevole una narrazione destinata a non decollare, disseminando qua e là battute spassose, finti numeri di prestidigitazione e gustose interazioni con il pubblico. Il momento più alto dell’esibizione si palesa negli ultimi minuti, quando Germano – Pain, in un folle parossismo di emozioni roteanti, sfoga tutta la rabbia repressa per una vita che raramente è andata per il verso giusto, ma che in ogni caso merita di essere amata e nobilitata, anche a dispetto della sua tragicità. Alla fine, infatti, un Thom Pain sollevato chiede a se stesso e agli spettatori: «Non è meraviglioso essere vivi?».
Gli inchini si distendono su un lungo applauso, probabilmente rivolto al meraviglioso attore (Germano vale sempre e comunque il prezzo del biglietto) più che allo spettacolo in sé. Tesi, questa, avvalorata dalla generale freddezza degli spettatori uscenti. Pare infatti che il giudizio maturato (a caldo) dal pubblico al termine delle due serate sia stato: “cugno”. Una stroncatura non del tutto immotivata per un’opera che certamente non ha convinto.

© 12 Gennaio 2011

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